30/05/2023, 11.17
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Fumi e neoplasie: il petrolio sostiene l’economia, ma uccide gli iracheni

di Dario Salvi

Il fenomeno del flaring - la combustione di gas nei giacimenti - sta diventando una emergenza sanitaria. Le prime denunce di casi dai campi profughi nel Kurdistan, ma l’aumento delle incidenze di tumori riguarda tutta la popolazione. P. Samir: “Ogni giorno abbiamo notizia di nuovi casi”, serve una “campagna di sensibilizzazione e prevenzione” ma mancano i fondi. 

Milano (AsiaNews) - Per il governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno la questione delle eccedenze nella produzione del petrolio, che viene dato alle fiamme perché i costi di smaltimento alternativi sono insostenibili, resta prioritaria. Tuttavia, gli obiettivi in tema di tutela dell’ambiente sono ancora lontani mentre le persone continuano ad ammalarsi, e a morire. Le incidenze nei tumori registrano numeri crescenti sebbene la portata sia ancora sottostimata e, in molti casi, le neoplasie restano nascoste a lungo, per poi essere scoperte quando sono ormai ridotte le possibilità di cura nel quadro di una emergenza che è tanto ecologica, quanto sanitaria. “La pratica diffusa di bruciare il greggio - racconta ad AsiaNews p. Samir Youssef, parroco di Enishke, nella diocesi di Amadiya - riguarda in particolare i centri di Dohuk ed Erbil. Durante la notte è frequente scorgere i roghi nelle aree di estrazione, accade in parte anche da noi ad Amadiya. La questione è conosciuta, ma nessuno ne parla: sappiamo solo che, ogni giorno, abbiamo notizia di nuovi casi di cancro che coinvolgono giovani, donne e anziani”. 

Flaring e neoplasie

Il cosiddetto gas flaring (o combustione di gas) è una pratica che consiste nel bruciare - senza benefici in termini di produzione energetica - il gas naturale in eccesso estratto assieme al petrolio, che risulterebbe troppo costoso perché richiede infrastrutture adeguate. La sostanza fuoriuscita genera una fiamma sopra le torri, ben visibile anche a chilometri di distanza. La pratica è diffusa negli impianti industriali petroliferi, chimici e di gas naturale, oltre ai siti di produzione del greggio sia sulla terraferma che offshore. Medici e abitanti della zona sono convinti che l’aumento delle neoplasie, in particolare nel campo profughi di Kawergosk, alla periferia di Erbil, sia legato proprio al fenomeno del flaring di una vicina raffineria gestita da Kar Group, la più grande società privata nel settore energetico. Uno studio pubblicato lo scorso anno sull’Asian Pacific Journal of Cancer Prevention (Apjcp) ha rilevato che il numero di pazienti con neoplasie è raddoppiato tra il 2013 e il 2019 a Erbil e Duhok e, più in generale, nel nord dell’Iraq. Un fattore, spiegano gli esperti, correlato alla ripresa della produzione negli impianti petroliferi sparsi nella regione dopo la fine del conflitto con lo Stato islamico (SI, ex Isis), mentre il governo centrale a Baghdad continua a puntare sugli idrocarburi per alimentare l’economia nazionale. 

Solo di recente diversi abitanti della regione curdo-irachena, in special modo quelli dei centri di accoglienza, hanno voluto condividere o rendere pubbliche le loro cartelle cliniche mostrando diagnosi che vanno dai disturbi respiratori - in forme lievi o gravi - al cancro. Oltretutto circa 1.200 tonnellate di munizioni sono state sganciate in Iraq durante le guerre del Golfo del 1991 e del 2003, rendendo difficile distinguere tra i casi di cancro causati dal flaring e quelli originati dall’uranio impoverito lascito dei massicci bombardamenti. Ultima emergenza sanitaria, in ordine di tempo, sono poi le sostanze chimiche pericolose come il benzene che minaccia soprattutto gli 8mila abitanti del centro di Kawergosk. “La consapevolezza del problema è molto debole”, fatta eccezione per “qualche articolo sui media” racconta p. Samir. Non solo i profughi dei centri, perché pure fra le popolazioni cristiana, yazidi e curda si registra un aumento marcato dei tumori: “La moglie di mio fratello e un giovane della parrocchia sono pazienti oncologici - prosegue il sacerdote - e tanti altri casi si contano nelle città, soprattutto a Dohuk. La colpa viene attribuita al fumo, ma il ragazzo della parrocchia non fuma, e nemmeno mia cognata. Un medico, mio conoscente, ha confermato che è molto meglio vivere lontano da Dohuk o Erbil” per la vicinanza coi pozzi “in cui si brucia petrolio”. 

I numeri dell’emergenza

Cancro e nascite premature non sono l’unica fonte di preoccupazione. Uno studio del Global Paediatric Health ha rilevato che i virus respiratori sono quasi due volte più diffusi tra i bambini di età inferiore ai 15 anni nelle aree amministrate dal governo regionale del Kurdistan (Krg) rispetto al vicino Iran. In passato autorità di Erbil avevano inviato alle compagnie petrolifere una direttiva che invitava a eliminare in maniera graduale il fenomeno del flaring entro il 2023, concedendo 18 mesi per conformarsi. Tuttavia, i numeri - contenuti nel report della Environmental Reporting Collective (Erc) - sono rimasti gli stessi nel periodo fra il 2018 e il novembre 2022. Inoltre, secondo i dati della Banca mondiale la Russia brucia il maggior quantitativo di gas naturale a livello globale, con un dato di 24,88 miliardi di metri cubi all’anno a partire dal 2020. L’Iraq segue da vicino con 17,37 miliardi di metri cubi. Tuttavia, l’analisi Erc mostra che la popolazione irachena, in media, si trova molto più vicina ai siti rispetto a quella russa. Dall’ottobre 2018 almeno 1,19 milioni di persone in Iraq hanno vissuto nel raggio di un chilometro da almeno 10 eventi di flaring. In Russia “solo” in 275mila hanno sperimentato lo stesso livello di esposizione. Il governo regionale curdo, per bocca del vice-ministro per le Risorse naturali Ahmed Mufti, dice di aver inserito in agenda “il taglio”, definendolo una “priorità”. Egli tiene però a precisare che l’obiettivo “zero” è impossibile, perché l’economia locale è legata all’industria del greggio e del gas. “Il Kurdistan - chiosa - ha molto successo, e rivendico la parola successo, nella gestione del flaring, mitigandone i livelli all’interno del novero delle possibilità”. Parole che vengono però smentite dai fatti: su tutti, il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dalle stesse autorità di Erbil.

La (mancata) prevenzione

La Banca Mondiale stima che l’Iraq manda letteralmente in fumo circa 17 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, per un valore di circa 8 miliardi di dollari. La pratica causa gravi danni ambientali e si estende dalla regione curda - dove si concentrano i campi profughi, prime vittime del fenomeno - fino a Bassora, nel sud. Una inchiesta della Bbc ha mostrato un collegamento diretto fra il flaring e l’aumento delle incidenze dei tumori, per il rilascio di inquinanti tossici come benzene, noto per causare la leucemia. A questo si aggiunge la dispersione nell’aria di un mix mortale formato da anidride carbonica, metano e fuliggine nera che è altamente inquinante. “Come Chiesa - sottolinea il parroco di Enishke - siamo consapevoli del problema e stiamo valutando come intervenire. Ho parlato con un medico per sensibilizzare sul tema, ma è il governo che deve muoversi a fronte di un problema grave e diffuso. Il numero dei casi è sconosciuto, ma l’emergenza è reale anche se finora è prevalso il timore. Molti, infatti, non vogliono fare test o esami, le campagne di prevenzione non sono ancora avviate o ben strutturate e ci si affida alla coscienza del singolo”. Dopo il dramma Isis e il ritorno dei rifugiati, a livello sanitario “si cerca di fare il possibile, ma servono maggiori risorse” prosegue p. Samir. “Purtroppo - aggiunge - dallo scoppio della guerra in Ucraina siamo stati dimenticati” fatta eccezione per il sostegno di singoli, piccoli gruppi o ong cristiane. “Noi continuiamo il nostro impegno in tutti i settori e puntiamo sulla prevenzione - conclude - ma si fa il possibile, a fronte di una crescente difficoltà a scovare risorse”. 

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