Evin, il ’buco nero’ della repressione degli ayatollah a Teheran
Il carcere voluto dallo Shah è il cuore delle peggiori atrocità della Repubblica islamica. Al suo interno rinchiusi, e giustiziati, detenuti comuni, attivisti, dissidenti. Molte le denunce di gravissimi abusi e violazioni ai diritti umani. A metà ottobre un rogo misterioso ha tenuto in scacco per ore la struttura. Processo pubblico per mille imputati legati alle proteste per Mahsa Amini.
Milano (AsiaNews) - Un buco nero che, da 50 anni, inghiotte dissidenti, attivisti, oppositori, cittadini con doppia nazionalità invisi al regime o incauti turisti stranieri, incappati nelle maglie della repressione o usati come merce di scambio con le potenze internazionali. Un luogo di violenza e di terrore, di abusi e di torture, in cui lo stupro viene utilizzato in modo sistematico, verso donne e uomini, per estorcere confessioni o come ulteriore mezzo di coercizione personale. Tutto questo, e molto altro ancora, emerge dalle testimonianze sul famigerato carcere di Evin alla periferia di Teheran, simbolo della lunga mano della rivoluzione islamica usato per silenziare quanti si oppongono alla dittatura. Dal quale in molti non hanno mai fatto ritorno e dove, nel silenzio, vengono eseguite - e molte altre vengono simulate come strumento di pressione - condanne a morte mediante impiccagione, con le famiglie che vengono informate del congiunto giustiziato a fatto compiuto. Una prigione tornata al centro delle cronache a metà ottobre per un devastante rogo di origine misteriosa - e mai chiarito dalle autorità - che per diverse ore ha scosso una nazione già segnata dalla morte della 22enne curda Mahsa Amini per mano della polizia della morale, che l’aveva fermata all’uscita di una metro della capitale per l’hijab male indossato. Un delitto che ha scosso le coscienze e innescato proteste di piazza che, a distanza di oltre 40 giorni, vengono represse nel sangue da Teheran, che ieri ha annunciato un “processo pubblico di massa” per “sovversione” a carico di mille imputati coinvolti a vario titolo nelle dimostrazioni.
L’università del terrore
La prigione di Evin, nell’omonimo sobborgo della capitale, è un centro di detenzione usato sin dalla sua nascita nel 1972 al tempo dello Shah di Persia - sette anni prima della Rivoluzione islamica del 1979 - per ospitare i detenuti politici. Con l’ascesa degli ayatollah viene creata un’ala soprannominata “università di Evin” per l’alto numero di studenti e intellettuali rinchiusi al suo interno. Secondo attivisti e gruppi indipendenti, nel carcere si sarebbero consumate “gravissime violazioni ai diritti umani e abusi di ogni tipo” contro dissidenti politici e critici del governo. Da oltre 40 anni è il simbolo del dominio autoritario della Repubblica islamica, in cui gli incidenti e le rivolte - a differenza di quanto avvenuto a metà ottobre - ben di rado superano i muri della prigione e vengono conosciuti dal grande pubblico.
Dai racconti filtrati attraverso la censura e da quanti ne sono usciti risulta una divisione in tre aree ben definite, con relative strutture e ministeri di riferimento: una per i reati comuni, una seconda sotto il controllo dell’intelligence e una terza specifica per detenuti politici, anche stranieri. Un reparto particolarmente sovraffollato di questi ultimi tempi, a causa della massiccia ondata di arresti in risposta alle manifestazioni per l’uccisione della Amini. Evin è famosa proprio per essere il luogo in cui vengono rinchiusi tutti i dissidenti politici, parte dei quali vengono poi giustiziati come avvenuto nel 1988 nelle esecuzioni di massa ordinate - o quantomeno avallate - da una commissione di cui era membro anche l’attuale presidente Ebrahim Raisi. Già prima della Rivoluzione islamica il carcere era noto per maltrattamenti e abusi, peggiorati con l’ascesa degli ayatollah. Gruppi attivisti fra i quali Amnesty International hanno diffuso numerosi rapporti negli ultimi anni in cui vengono denunciate “frustate, esecuzioni simulate, violenze sessuali, cure mediche negate, waterboarding e torture mediante uso della corrente elettrica”. Ai prigionieri sono negati i diritti fondamentali come quello dell’aria, il cibo, trattamenti e istruzione, l’illuminazione adeguata e le visite dei familiari, persino i contatti con gli avvocati.
In linea teorica il penitenziario avrebbe dovuto ospitare i detenuti in attesa di processo, per poi essere trasferiti in altre strutture quali il carcere di Ghezel Hesar o Gohardasht. Tuttavia, Evin si è trasformata in una sorta di campo di concentramento dove i carcerati in attesa di giudizio hanno vissuto e sofferto per anni prima di comparire davanti ai giudici. Al suo interno vi sono 15mila prigionieri, suddivisi in 12 reparti sovraffollati a fronte di un limite massimo di 3mila prigionieri. I reparti più temuti sono sotto il controllo dei Guardiani della rivoluzione (Pasdaran) e dei servizi di intelligence: qui avvengono le peggiori atrocità ai danni dei prigionieri “speciali” cui sono riservate “particolari attenzioni”.
Un rogo misterioso
A metà ottobre si sono vissute diverse ore di terrore per un rogo misterioso, e testimonianze di spari, sul quale le autorità di Teheran dopo una prima fase di confusione hanno imposto una rigida censura, bloccando le comunicazioni verso l’esterno. Il bilancio fornito dalla magistratura è di almeno otto vittime, di cui quattro per aver inalato le esalazioni nocive scatenate dall’incendio, e 61 feriti. La versione ufficiale aggiunge che gli otto morti erano stati arrestati e condannati per furto, mentre i responsabili dell’incidente sarebbero dei non meglio specificati “teppisti” che hanno appiccato il fuoco “a un deposito di vestiti” interno al centro di detenzione. Sono seguiti scontri violenti fra gli stessi prigionieri, poi fra guardie carcerarie e detenuti che urlavano “morte al dittatore” e “morte a Khamenei”, la guida suprema iraniana. Una versione che però non convince attivisti e parenti di detenuti a partire dal bilancio dei morti, che in realtà sarebbe molto più elevato.
Il sito attivista cristiano Article18 ha raccolto testimonianze di “colpi di arma da fuoco”, video di “proiettili” sparati nella prigione ed “esplosioni”. “È stata una notte infernale per noi. Eravamo - racconta il parente di un detenuto - completamente all’oscuro di quello che stava succedendo. Poi, quando siamo stati finalmente in grado di parlare, abbiamo sentito il suono dei colpi di arma da fuoco e il telefono si è disconnesso”. “Il mattino seguente - prosegue un’altra fonte, anonima per motivi di sicurezza - un parente ci ha chiamato per dirci che stava bene. Egli ha poi aggiunto che la maggior parte dei prigionieri del reparto 8 aveva aiutato a spegnere il fuoco [originato dal reparto 7] con ogni strumento su cui poteva mettere le mani, dai secchi e contenitori fino ai tubi dell’acqua”.
Steven Beck, esperto forense di audio e ricercatore della Carnegie Mellon University, ha analizzato i video forniti dal Washington Post e ha scoperto che sarebbero stati sparati oltre cento colpi e il suono è “coerente con un AK-47 [Kalashnikov]”, oltre a pistole e fucili. Altre due deflagrazioni “collimano con l’uso di granate”, versione confermata da un altro esperto di armi, Amael Kotlarski, secondo cui granate stordenti sono state sparate all’interno della prigione mentre uno dei roghi sarebbe stato appiccato in modo intenzionale quando i detenuti erano ancora nelle loro celle. Le autorità hanno stanziato reparti della sicurezza, fra le quali milizie Basij e unità speciali della polizia per sedare la rivolta usando con abbondanza manganelli, munizioni da combattimento, pallini di metallo ed esplosivi. Una vicenda in cui molti elementi restano oscuri e sulla quale osservatori indipendenti e ong chiedono una “indagine indipendente” per appurare l’uso “straziante e illegale della forza” dei reparti della sicurezza. Tuttavia, il timore - o la certezza - è che anche questo caso finisca per essere assorbito dal “buco nero” che risponde al nome di Evin.
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