Esperti cinesi: nello Xinjiang c’è ‘repressione’, non ‘genocidio’
Sul trattamento degli uiguri, il governo comunista ha le sue colpe nella guerra di parole con l’Occidente. Le accuse di violazioni dei diritti umani nella regione si basano su congetture. Invocato il dialogo tra Cina e Paesi occidentali; Pechino impone però restrizioni su un'eventuale indagine internazionale.
Pechino (AsiaNews) – Nello Xinjiang non vi è alcun crimine di genocidio. Il vero problema è che le politiche etniche del governo vanno da un estremo a un altro: passano da una situazione di troppi benefici concessi alle minoranze musulmane all’inflessibile repressione nei loro confronti. È la posizione di alcuni esperti cinesi citati ieri dal South China Morning Post. Secondo loro, la leadership del Paese ha le sue colpe nella guerra di parole con l’Occidente sul trattamento di uiguri e altri gruppi minoritari di ceppo turco che vivono nella regione autonoma.
Yang Shu, ex preside dell’Istituto per l’Asia centrale dell’università di Lanzhou, sostiene che senza testimonianze dirette le accuse di genocidio e lavoro forzato si basano su congetture e affermazioni non verificate. Egli sottolinea però che le autorità non sono riuscite spiegare in modo adeguato che le politiche adottate contro terrorismo ed estremismo religioso hanno come obiettivo quello di garantire la stabilità sociale.
Ma non è solo un problema di trasparenza. Insieme ad altri colleghi, Yang è critico per il modo spietato e crudele con cui le decisioni governative sono attuate nello Xinjiang, affermando che in alcuni casi si è andato oltre le intenzioni originarie.
Secondo dati degli esperti, confermati dalle Nazioni Unite, le autorità cinesi detengono o hanno detenuto in campi di concentramento oltre un milione di uiguri, kazaki e kirghisi dello Xinjiang. Rivelazioni di media hanno messo in luce l’esistenza di campi di lavoro nella regione, dove centinaia di migliaia di persone sarebbero impiegate con la forza, soprattutto nella raccolta del cotone. Alcuni ricercatori indipendenti sostengono anche che il governo cinese stia conducendo una campagna locale di sterilizzazioni forzate per controllare la crescita della popolazione di origine uigura.
I cinesi negano ogni accusa, e parlano di “fake news”. Essi affermano che quelli nello Xinjiang sono centri di avviamento professionale e progetti per la riduzione della povertà, la lotta al terrorismo e al separatismo. La linea ufficiale e che nella regione non vi è alcuna violazione dei diritti umani, e che popolazione han (maggioritaria in Cina) e minoranza turcofona di fede islamica vivono in armonia.
L’argomento usato dalla leadership comunista e da alcuni accademici per respingere l’accusa di genocidio (il tentativo di annientare un gruppo etnico) è che la popolazione di uiguri e altri gruppi minoritari dello Xinjiang è in aumento. Ciò è dovuto all’esenzione dalla politica del “figlio unico”, che è riconosciuta a tutte le minoranze del Paese.
Per Yin Gang, specialista di affari mediorientali all’Accademia cinese delle scienze sociali, se Cina e Occidente avessero un vero dialogo e scambio d’informazioni, la questione dello Xinjiang non sarebbe così controversa. Il governo cinese sostiene che la regione è aperta alle visite dall’estero. L’Agenzia Onu per i diritti, umani, l’Unione europea, gli Usa e diverse organizzazioni umanitarie chiedono da tempo di poterla visitare, ma senza le restrizioni imposte da Pechino.
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