Egitto: il dolore delle famiglie dei 21 martiri decapitati. Plauso per l'offensiva egiziana in Libia.
Il Cairo (AsiaNews) - Riportiamo la terza e ultima parte della testimonianza del nostro corrispondente in Egitto. I fatti degli ultimi giorni riportano la notizia della devastazione di diverse chiese e villaggi in Siria da parte dei miliziani dello Stato islamico (IS), lo stupro e l'uccisone di donne, il rapimento di più di 150 cristiani assiri, tra cui donne, bambini e anziani. Di fronte alla crescente tensione nel mondo islamico le famiglie dei 21 martiri copti egiziani piangono la morte dei propri cari, uniti nella preghiera e nel ricordo. Tutti i giovani uccisi si trovavano in Libia per lavoro, si erano allontanati dai loro villaggi poveri per garantire una migliore istruzione ai figli e costruire un futuro migliore per le loro famiglie. (Per la prima parte vedi qui; per la seconda, qui).
Nel lontano e sperduto villaggio di Menbal incontro, distrutti dal dolore, i genitori di Milâd Sâber, il martire che nel momento della decapitazione ha invocato il nome di Gesù Cristo. La sua è una famiglia di contadini. La madre ricorda l'ultima telefonata con il figlio: "Di solito mio marito porta il cellulare con sé tra i campi. Quel giorno aveva dimenticato il telefono a casa. Quindi ho deciso di portarglielo e, nel tragitto verso i campi, il cellulare ha squillato. Era il mio amato figlio. Mi ha domandato: 'Ti serve qualcosa, mamma?' Io gli ho risposto: 'L'unica cosa che voglio è che tu stia bene. Ci hanno detto che la situazione non è positiva, torna a casa'. Lui mi ha risposto: 'Non ti preoccupare, mamma. Lascia che il Signore ci protegga e accada quello che deve accadere'". Poi la donna ha aggiunto con un sorriso pieno di sofferenza: "Ora abbiamo un nostro martire in paradiso. È una enorme benedizione e una immensa grazia che non ci meritiamo...Non posso dimenticare le sue ultime parole: 'Sto tornando a casa, mamma. Benedicimi e trova per me una buona moglie'...".
Milâd era il terzo di quattro figli. Il fratello maggiore, Hani, spiega che il ragazzo ha ottenuto il diploma secondario in lavoro manuale nel 2010 ed è partito lo stesso anno per la Libia per lavorare come imbianchino nei cantieri. La sua giornata lavorativa iniziava alle 7.00 di mattina e terminava al tramonto. Viveva con altri otto compagni egiziani in un piccolo appartamento di tre camere a sette chilometri da Sirte. "Mi dispiace di non essere riuscito a raggiungerlo, perché non c'era posto", aggiunge.
Ancora più lontano, nel villaggio di Dafash vive la famiglia di 'Ezzat Boshra Nassîf, un altro martire che lavorava come imbianchino in Libia. La moglie Myriam riferisce: "La nostra casa è minuscola. Mio marito sperava di ampliarla e soprattutto di mandare nostra figlia Jouvanya in una scuola privata, dato che lui è stato costretto a interrompere gli studi al sesto anno della scuola primaria". Si sentivano di continuo al telefono, grazie all'applicazione Viber che permette a coloro che hanno uno smartphone di fare lunghe conversazioni senza pagare alcuna commissione. Myriam gli inviava decine di fotografie della figlia. Nell'ultima chiamata lui le aveva detto: "Partirò stamattina alle 10. Porto alcuni dolci e della cioccolata per nostra figlia, un televisore, un tappeto, un copriletto di lana pregiata e diversi cellulari. Ti chiamo quando arrivo alla frontiera ad A-Solloum. Per favore preparami il pollo arrosto perché sono stanco del sobrio menu dell'esilio. Non vedo l'ora di rivedere il nostro angelo Jojoe". Ma il destino ha deciso in maniera diversa. La vedova continua: "Nostra figlia mi ha chiesto: 'Perché indossi i vestiti neri?' Io le ho detto: 'Perché gli altri devono essere lavati'. Ma lei mi ha risposto: 'No, è perché papà è volato in paradiso'...".
Nel villaggio di Al-Souby la famiglia di Malâk Farag Abrâm è unita nel piangere il suo omicidio. Il ragazzo aveva un diploma in agricoltura ed è morto prima di compiere 30 anni. Il padre racconta che Malâk era sposato da un anno e mezzo ed era dovuto partire per la Libia quando sua moglie era incinta di pochi mesi. La loro figlia ora ha quasi nove mesi. Egli ha deciso di andare a lavorare in Libia per dare una mano al padre e assistere il fratello più piccolo e la sorella che si è fidanzata da poco. "Io non volevo che partisse, a causa della situazione. Ma lui mi ha rassicurato dicendomi che le tensioni erano a Tripoli, non a Sirte dove la situazione era tranquilla". "Mi chiedeva sempre di sua figlia. Mi domandava: 'È carina? A chi assomiglia?'; e io gli rispondevo: 'A tua sorella Madonna'. Lui era felice ma, sfortunatamente, non siamo mai riusciti a mandargli delle fotografie".
Nel villaggio di Maqârius, ancora più distante, la vedova di Sâmeh Salâh racconta l'ultima conversazione che ha avuto con il marito. E' circondata da tante persone che si affollano nella sua piccola casa di sole due stanze: "Voleva vedere sua sorella con il telefono. Mi ha chiesto di svegliare il figlio Shenuda perché voleva vedere anche lui. Poi mi ha fatto domande su nostra figlia Marianne, di 14 mesi. Mi ha implorato di pregare per lui, perché sentiva che non ci avrebbe mai più rivisto". Accanto a lei siede lo zio del martire ucciso, che accompagnava il nipote in macchina fin da quando era bambino, dopo che la madre si era trasferita altrove con il nuovo marito, in seguito alla morte del padre di Sâmeh. Lo zio racconta: "Abbiamo sempre sentito parlare dell'epoca dei martiri e ora la stiamo vivendo davvero".
Lì vicino, il piccolo villaggio di Samsoum ospita la famiglia di Guergues Samîr, che era il più grande dei figli. La madre dice: "Lui era così buono, senza malizia. Era fidanzato con la figlia di mia sorella e avevamo comprato le fedi. Io volevo che tornasse a casa perché il suo matrimonio era previsto tra otto mesi. Ma lui mi ha detto: 'È meglio che lavori sodo in questo periodo'. Non siamo nemmeno riusciti a dargli i regali di Natale, ma adesso lui è in Paradiso". Il padre ricorda quando il figlio saliva con lui sulle spalle del somaro e lo portava a scuola in un villaggio vicino. "Vorrei tanto avere una scuola qui, nel nostro villaggio", dice. "La chiameremmo 'La scuola dei martiri'". Il figlio non è potuto andare in Arabia Saudita perché tutta a famiglia è affetta dal virus dell'epatite B.
Per raggiungere il villaggio di Al-Gabâly, conosciuto come Manqatîn, l'unico modo è salire dietro ad un furgoncino. Tutta la popolazione è riunita nella chiesa per piangere i due martiri del villaggio, Louqâ Nagâty e 'Essâm Baddâr. Il prete ripete alcuni versi delle Sacre Scritture. La casa di Louqâ si trova proprio vicino la chiesa; molte donne sono attorno alla moglie vedova che stringe la figlia di nemmeno due anni. La donna sorride emozionata e con un viso luminoso: "Noi eravamo una coppia in totale fusione, unita in Cristo. Lui era così gentile e affettuoso e sognava per noi una vita migliore. Qui c'è nostra figlia di 11 mesi. Noi ci siamo sposati il 16 giugno 2013. Abbiamo vissuto insieme per poco tempo e poi è andato in Libia per un anno e mezzo".
Accanto al padre di Louqâ siede quello di 'Essâm. Entrambi si rammaricano del fatto che nessuna personalità ufficiale del villaggio gli ha fatto visita per porgergli le condoglianze. Tutti sono soddisfatti delle rappresaglie che l'Egitto sta conducendo contro gli assassini dei loro martiri.
Come Hâni Sâber ha espresso a Menbal, visti i sentimenti di tutte le persone nei diversi villaggi, "È un peccato che il primo ministro non sia venuto nel nostro villaggio. Ci avrebbe fatto piacere se avesse visto come le persone vengono qui e come vivono.E se avesse notato la precarietà delle strade. Avrebbe capito perché i giovani qui sono costretti ad andare a lavorare in Libia o altrove."
12/10/2017 12:52
17/02/2020 14:52