Duterte usa la retorica del “buon padre” e i militari per creare una dittatura
Il presidente filippino ha chiesto un’estensione di altri sei mesi alla sua “guerra contro la droga” che, finora, ha provocato più di 3mila vittime: “Anche se vorrei, non posso uccidere tutti i narcotrafficanti”. Analista ad AsiaNews: “Sta ripercorrendo i passi di Marcos, presentandosi come padre della nazione e cercando l’appoggio dell’esercito”. Il card. Tagle apre l’arcidiocesi ai drogati: “Non buttiamo a mare la vita, siamo qui per voi”.
Manila (AsiaNews) – La retorica del “padre amorevole della nazione”, il pugno duro contro i presunti trafficanti di droga e l’appoggio dell’esercito “sono i tre elementi che il presidente filippino Rodrigo Duterte sta usando per riportare la dittatura nel Paese”. Lo dice ad AsiaNews un analista locale, anonimo per motivi di sicurezza, che spiega: “I suoi primi passi una volta giunto al potere ricordano da vicino quelli dell’ex dittatore Ferdinando Marcos. È impressionante”.
L’escalation di violenza nel Paese sembra in effetti inarrestabile: “Nella sua campagna elettorale – spiega l’analista – aveva promesso 100mila trafficanti morti. Sembrava la sparata di un uomo politico abituato a presentarsi come ‘uomo forte’, decisionista. Ma con questi ritmi potrebbe davvero uccidere 100mila persone senza un processo e senza una seria opposizione parlamentare. Serve un risveglio della società civile”.
In effetti, dall’elezione di Duterte avvenuta lo scorso maggio 2016, sono stati uccisi circa 3mila presunti spacciatori di droga filippini. Gli autori della mattanza sono in parte membri della polizia, che parlano di uccisioni “avvenute durante scontri a fuoco”: secondo i dati ufficiali, circa mille vittime. Ma sono coinvolti anche “vigilanti” privati interessati a riscuotere le taglie non ufficiali promesse – sottobanco – dalle varie autorità locali: questi avrebbero ucciso altre 2mila persone. Il modello è quello degli “squadroni della morte” dell’epoca di Marcos, che Duterte ha applicato nella città di Davao nei 20 anni in cui è stato sindaco.
Ieri sera, inoltre, il presidente ha chiesto un’estensione di “circa sei mesi” alla sua guerra contro il narcotraffico: “Non avevo idea delle reali dimensioni di questa piaga fino a che non sono stato eletto. Ora ho bisogno di un altro poco di tempo, diciamo sei mesi. Anche se vorrei, non posso ucciderli tutti”. Il riferimento è appunto agli spacciatori, che tuttavia vengono eliminati senza un apparato giuridico e senza una sentenza.
Il modello, spiega ancora la fonte di AsiaNews, “è quello di Marcos. Duterte si presenta con la retorica del buon padre di famiglia, duro ma giusto. In più di un’occasione, davanti alle timide proteste che gli sono state rivolte per questa mattanza, ha detto: ‘Cosa fareste se uno spacciatore entrasse nella vostra casa per avvelenare i vostri figli? Uno gli dice di smetterla, ma se non viene ascoltato spara. E io voglio essere un padre per le Filippine’. Dietro queste dichiarazioni vi è un enorme disprezzo per il sistema democratico”.
Ma la retorica non basta “e Duterte lo sa. Ecco perché in queste ultime settimane, nel silenzio generale, ha iniziato una visita delle caserme di tutto il Paese. Come per il Libano e la Turchia, anche nelle Filippine i militari sono i garanti della democrazia. Se riesce a portarli dalla sua parte, come fece Marcos, la situazione si farà davvero preoccupante”.
La Chiesa cattolica ha in più occasioni criticato la “guerra alla droga” dell’esecutivo e ha chiesto alle forze dell’ordine di “ritrovare lo spirito della giustizia”. Per cercare di limitare i danni, l’arcivescovo di Manila ha spronato le parrocchie della capitale a fornire assistenza e programmi di disintossicazione: “Siamo qui per voi. Non sprechiamo la vita umana: è importante e deve essere protetta”. Dal punto di vista pratico, attraverso la pastorale arcidiocesana per la salute i cattolici di Manila prepareranno e offriranno – dopo la disintossicazione – sostegno spirituale, formazione professionale e avviamento al lavoro.
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