22/04/2016, 11.54
UCRAINA
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Dopo 30 anni dal disastro, “Cernobyl non può essere una storia chiusa”

di Marta Allevato

La direttrice del museo di Cernobyl a Kiev lancia un appello: “Bisogna occuparsi delle persone che ancora subiscono le conseguenze di quel disastro e che oggi sono abbandonate”. Intanto abbondano le notizie sulla natura rigogliosa e la fauna che torna a ripopolare la Zona di Esclusione. Si attende la conclusione dell’immenso nuovo sarcofago che metta in sicurezza il reattore della centrale, scoppiato in passato.

Kiev (AsiaNews) - “Cernobyl non è una storia chiusa. Bisogna che le autorità si occupino seriamente delle persone che ancora vivono nei territori contaminati e che sono state abbandonate, con grandi rischi per la seconda e terza generazione di bambini”. È l’appello di colei che conosce bene la tragedia umana che ancora affligge l’Ucraina, colpita duramente insieme alla Bielorussia dal più grave disastro della storia del nucleare civile, quel 26 aprile di 30 anni fa. Quando scoppiò il reattore numero 4 della centrale (a poco più di 100 km dalla capitale), ufficialmente per un test andato fuori controllo, Anna Korolevska (v. foto 2) - oggi vice direttrice del museo nazionale ucraino di Cernobyl - era a Kiev. Aveva poco più di 20 anni ed era incinta di pochi mesi: “Ho seguito l’istinto e anche se mi fa male ancora questa scelta, ho deciso di abortire, era troppo rischioso in quelle condizioni dare alla luce un figlio, ho saputo solo dopo che l’utero di migliaia di donne era stato contaminato per sempre”. “Ognuno di noi in Ucraina ha la sua Cernobyl, anche se non è stato direttamente colpito dall’evacuazione, da malattie o dalla morte di una persona cara”, racconta la Korolevska nel suo ufficio a Kiev, mentre il telefono squilla in continuazione. A pochi giorni dal 30° anniversario della catastrofe, scolaresche, gruppi di turisti, giornalisti e autorità da diverse nazioni vogliono visitare il museo, l’unico nel Paese dedicato al disastro nucleare.

“La gente, i giovani, non dimenticano Cernobyl, vediamo un forte interesse; sono le autorità ad aver abbandonato quei territori”, denuncia la vice direttrice, riferendosi alle province di Ivankov e Polesie dalla zona quattro di esclusione di Cernobyl. Qui è permesso vivere, ma la contaminazione è ancora alta e sono stati interrotti i monitoraggi sul cibo e la popolazione. “Le persone vivono sull’orlo della povertà - racconta la donna - e non hanno alternativa ai prodotti radioattivi che coltivano nel loro orto" (v. foto 3). I medici che lavorano in quelle zone continuano a riscontrare casi di tumori alle ossa, al cervello, problemi al cuore, cisti alla tiroide, disfunzioni metaboliche e genetiche nei bambini figli dei figli di Cernobyl, che consumano alimenti in cui sono ancora presenti isotopi radioattivi come Cesio 137 e Stronzio 90. 

“Una nuova generazione è nata in questi territori e riceve piccole dosi di radiazioni su un lungo periodo: prima come feto e poi dopo la nascita. Per questo è indispensabile investire molto denaro non solo nel nuovo sarcofago del reattore, che dovrà sostituire il vecchio per evitare nuove dispersioni, ma anche per risolvere la questione dei territori contaminati, per aiutare questa gente, che dal governo oggi riceve solo pochi centesimi in assistenza sociale, e che non ha possibilità di sottoporsi ad analisi regolari: servono laboratori, ambulatori gratuiti e un programma accurato di profilassi”. 

Fondato nel 1992, poco dopo il crollo dell’Urss e con l’apertura di parte degli archivi, il museo di Cernobyl (foto 4) raccoglie documenti, oggetti e testimonianze dirette dei soccorritori, delle vittime e dei sopravvissuti. La prima esposizione era dedicata solo ai vigili del fuoco, i primi ad accorrere a spegnere il rogo radioattivo, mandati a morire senza protezioni e consapevolezza di quanto stesse accadendo. Col tempo, racconta la vice direttrice, abbiamo capito che lo scopo del museo doveva essere più ampio: “Raccontare la vastità della tragedia attraverso il destino delle persone che sono state colpite”. “Abbiamo girato Russia, Bielorussia e Ucraina e setacciato gli archivi per mettere insieme quanto più materiale possibile” e oggi il museo mostra una fedele ricostruzione dell’incidente e delle sue conseguenze tramite mappe, filmati, foto e altro materiale. “Non è stato facile - ammette la Korolevska - ci siamo scontrati con la segretezza e omertà che continua a esistere su quanto accaduto, con la difficoltà di superare la reticenza delle vittime a rendere pubblico il loro dolore e col fatto che i reperti di più forte impatto emotivo non possono essere esposti perché radioattivi”.  Nonostante ciò, il museo ha delle sezioni toccanti, come quella dedicata ai liquidatori, oltre 600.000 tra volontari, soldati, ingegneri, pompieri che per quattro anni hanno ripulito la centrale, sepolto con le pale scorie e materiale radioattivo. I primi giunti sul posto hanno spostato con mani e piedi i pezzi di grafite che emanavano in un secondo e mezzo la dose di radiazioni che una persona accumula in una vita.  

“Le informazioni sulle reali condizioni di salute della gente di Cernobyl non sono ancora accessibili e questo non è ammissibile - conclude - con il museo vogliamo non solo preservare la memoria, ma anche tenere alto l’allarme in tutto il mondo sulle condizioni del nostro pianeta”, dove ci sono ancora circa 440 reattori in funzione, di cui 16 in Ucraina. A suo dire il problema non si risolvere solo “buttando soldi” nel nuovo sarcofago che dal prossimo anno dovrebbe mettere in sicurezza il reattore numero 4, ancora a rischio di fughe radioattive, oppure chiudendo tutte le centrali: “Rimarrebbe il problema dello smaltimento e del trattamento delle scorie e comunque la Terra è fortemente contaminata anche dall’uso dell’arma atomica e dagli esperimenti condotti per anni in diversi Paesi. Bisogna riprendere a occuparsi della gente”.  

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