Dissidenti sauditi in esilio: come Khashoggi, Riyadh ha cercato anche noi
Nell’ultimo anno almeno tre casi simili a quello del giornalista e intellettuale scomparso al consolato di Istanbul. Dal Canada agli Stati Uniti, all’Australia, emissari del regno hanno avvicinato dissidenti cercando di attirarli all’interno delle rappresentanze diplomatiche locali. Dall’ascesa al trono di bin Salman più che raddoppiate le richiese di asilo politico di sauditi all’estero.
Riyadh (AsiaNews/Agenzie) - L’omicidio del giornalista e intellettuale Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita a Istanbul, in Turchia, ha seminato panico e tensione fra i dissidenti in esilio, che hanno abbandonato il regno per sfuggire alle purghe della casa reale. Negli ultimi tempi molti hanno denunciato tentativi “discreti” del governo per “attirarli” all’interno delle ambasciate dei diversi Paesi. Una “trappola” per fermarli e rimpatriarli in gran segreto.
Leader e intellettuali sauditi in esilio in almeno tre diverse nazioni hanno denunciato un apparente tentativo da parte di funzionari del regno di attirarli all’interno delle rappresentanze diplomatiche locali. Il destino, secondo i più, sarebbe stato in tutto simile a quello toccato a Khashoggi, ucciso [a dispetto delle smentite ufficiali] dietro ordine delle massime autorità di Riyadh.
Fra i dissidenti nel mirino vi è il 27enne Omar Abdulaziz, esiliato in Canada: egli racconta che, a inizio d'anno, è stato avvicinato da agenti sauditi che gli hanno intimato di seguirli all’interno dell’ambasciata per sbrigare alcune pratiche relative al passaporto. “Mi hanno detto - ricorda - ci vorrà solo un’ora, devi solo seguirci in ambasciata”.
Abdulaziz, nel mirino di Riyadh per alcuni spettacoli satirici sulla monarchia, si è rifiutato temendo una trappola. Negli stessi giorni due suoi fratelli e alcuni amici rimasti in Arabia Saudita sono stati arrestati.
Vi è poi il caso di Abdullah Alaoudh, studioso alla Georgetown University, che ha rivelato di essere stato attirato in una “trama” del tutto simile lo scorso anno a Washington. Alaoudh, figlio del predicatore islamico Salman al-Awd agli arresti e sotto processo in Arabia Saudita, aveva presentato richiesta per il rinnovo del passaporto all’ambasciata. I funzionari gli hanno risposto invitandolo a tornare nel Paese di origine per espletare alcune “formalità”. “Mi hanno offerto un pass temporaneo - ricorda - che mi avrebbe permesso di tornare in Arabia Saudita”. Tuttavia, aggiunge, “sapevo che si trattava di una trappola e me ne sono andato con il passaporto scaduto”.
I racconti sembrano confermare una tendenza crescente in Arabia Saudita, dove il principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) ha messo nel mirino le voci critiche e i dissidenti, con l’obiettivo di silenziarli. Fonti anonime rivelano un piano del governo finalizzato proprio al rimpatrio nel regno di tutte le voci critiche e dissidenti.
Fra queste vi è anche Manal al-Sharif, attivista per i diritti delle donne fuggita in Australia. Dice di essere sfuggita per poco a una tentativo di sequestro nel settembre dello scorso anno quando Saud al-Qahtani - voce influente nella famiglia reale - ha cercato di trascinarla all’interno dell’ambasciata. “Senza l’intervento provvidenziale di Dio - sottolinea - sarei stata un’altra vittima”.
Secondo gli ultimi dati, il numero di richiedenti asilo e rifugiati politici che hanno lasciato l’Arabia Saudita è più che raddoppiato dall’ascesa al trono di Mbs. Come conferma un rapporto dell’agenzia Onu per i rifugiati, da 575 casi nel 2015 si è passati a 1256 nel 2017.
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