Dalla Chiesa birmana una “cultura della pace”, per sanare le ferite del passato coloniale
Yangon (AsiaNews) - Pubblichiamo la seconda parte dell'analisi di un sacerdote e studioso birmano, sulle sfide che deve affrontare la Chiesa birmana nel cammino di missione. Pace e riconciliazione sono gli elementi dai quali partire, per sanare le ferite di un passato coloniale (portoghese e britannico) che, ancora oggi, in alcuni casi porta ad associare il cristianesimo a una religione "straniera". Fondamentali ancora oggi le direttive tracciate da Giovanni Paolo II, che nell'esortazione apostolica post-sinodale "Reconciliatio et paenitentia" invitava i fedeli a "pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare le divisioni".
Il Myanmar è una nazione a larga maggioranza buddista, teatro dal 2012 di una lunga serie di violenze confessionali che hanno causato almeno 300 morti e 140mila sfollati; la maggior parte delle vittime sono musulmani Rohingya, nello Stato occidentale di Rakhine, epicentro dello scontro, finiti nel mirino di estremisti buddisti. In una situazione di tensione etnica e religiosa i cattolici possono fornire un grande contributo alla "ricostruzione della nazione", come sottolinea l'arcivescovo di Yangon e neo cardinale Charles Bo, operando "nei settori dell'educazione, nelle scuole, nella sanità".
Traduzione a cura di AsiaNews:
Le modalità di annuncio del messaggio del Vangelo
Nel terzo incontro fra Adoniram Judson (missionario battista statunitense, ndt) con il monarca buddista, il re Bagyidaw gli ha chiesto: "E voi, seguaci di Gesù, vi vestite come gli altri birmani?". Ciò che risultava particolarmente sospetto agli occhi dei re Bamar non era tanto la questione delle conversioni al cristianesimo, quanto piuttosto il problema, fra i convertiti, della perdita della loro identità culturale e l'associazione che si veniva a creare con la cultura occidentale e l'imperialismo.
Un tempo un ispettore cristiano ha fatto notare che i cristiani non sono affatto interessati al buddismo. Essi pensano di possedere la sola e vera religione. Per questo, alcuni vescovi cattolici e leader di altre confessioni cristiane sono convinti che sia loro compito convertire chiunque alla fede cristiana, e in special mondo convertire il numero maggiore possibile di birmani. In effetti la parola "incarnazione" nella cultura buddista significa "conservazione dell'identità culturale di una persona di fede cristiana".
Nonostante questa affermazione, sotto il dominio coloniale le missioni hanno determinato molte conversioni fra le minoranze etniche. Di conseguenza, si è sviluppata nel tempo una separazione di natura etnica, religiosa e culturale fra i cristiani delle minoranze etniche e i buddisti Bamar (birmani), che costituiscono la grande maggioranza della popolazione. La divisione si è fatta più marcata con la nascita e il rafforzamento di un movimento nazionalista che trae le propri origini dalla tradizione buddista. I nazionalisti hanno guardato ai cristiani come sostenitori dell'establishment, per il loro atteggiamento e per le loro convinzioni nell'ambito della sfera politica. Il cristianesimo è stato visto come una religione straniera, per il suo tardo arrivo nel Paese e la lentezza nell'adattarsi alla cultura locale e alla mentalità, mentre il buddismo era già presente da tempo e ben radicato nei cuori della gente.
Conclusione, una giusta via
In questo percorso di memoria storica, il cristianesimo viene sempre associato all'imperialismo, all'oppressione, all'arroganza, al disdegno e alla forza superiore. Un tale approccio alla memoria storica del cristianesimo deve essere rivisitato in chiave critica, prima che si possa raggiungere la cura delle ferite e una vera riconciliazione. Si può anche parlare di un certo "complesso di superiorità" dei cristiani, che emerge nel modo di avvicinarsi agli altri, nel rispetto reciproco e nelle buone maniere.
Per questo, oggi una delle principali preoccupazioni nel settore del sociale della Chiesa in Myanmar, così come nel resto dell'Asia, è proprio quella di costruire la pace. L'Asia è un'arena di conflitti etnici, religiosi e politici a intermittenza. La Chiesa in tutto questo è spesso chiamata a diventare foriera di pace, persino in quelle situazioni di conflitto che - in molti casi - è dovuto proprio a diversità di natura confessionale e a pregiudizi. Dobbiamo essere una voce profetica nella costruzione della pace, pur in mezzo a situazioni di conflitto. La strada della pace è lunga e difficile. Gli sforzi pastorali di formazione e dialogo devono puntare alla costruzione di una cultura di pace fra noi e gli altri, basata sull'integrità, sul rispetto, sulla comprensione reciproca e, da ultimo, sull'amore.
Hla Bu, un professore di filosofia cristiano del periodo successivo all'indipendenza, suole ricordarci che tutti i leader buddisti hanno un atteggiamento critico verso i cristiani, perché considerati poco propensi alla cooperazione in tutti quegli ambiti che riguardano l'interesse nazionale. Egli ha suggerito ai cristiani di collaborare con i buddisti birmani e il governo, dimostrando di essere cittadini patrioti. Si tratta di un buon suggerimento, e per questo, in ogni tipo di servizio sociale, le persone dovrebbero vedere che i cristiani nutrono una sincera preoccupazione per il popolo del Myanmar e per la sua sorte.
Infine, per poter superare gli ostacoli sopraelencati, le Chiese cristiane del Myanmar devono continuare quel processo di riconciliazione per le vicende del passato che hanno lasciato aperta una ferita, e trasformare le modalità di annuncio del Vangelo fra la gente del Myanmar, secondo le direttive tracciate da Giovanni Paolo II quando ha detto: "Dinanzi ai nostri contemporanei, così sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata a dare l'esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo tutti dobbiamo operare per pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite eventualmente inferte tra fratelli, quando si acuisce il contrasto delle opzioni nel campo dell'opinabile".