18/02/2025, 09.32
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Da Gaza a Teheran, la partita (diplomatica) saudita per la supremazia nel Golfo

di Dario Salvi

L’Arabia Saudita crocevia di diversi dossier globali, dalla guerra in Ucraina al futuro della Striscia fino al nucleare iraniano. Sotto la leadership di bin Salman il regno ha rinsaldato i rapporti con Trump e disinnescato le tensioni con Teheran. La partita della normalizzazione con Israele e la sfida interna con gli Emirati Arabi Uniti per l’egemonia nel Golfo.

Milano (AsiaNews) - Dalla guerra di Israele contro Hamas a Gaza all’invasione russa dell’Ucraina, fino alla partita del nucleare iraniano sono molti i dossier aperti nell’agenda della politica internazionale, con un punto in comune: le strade della mediazione e gli attori protagonisti di queste partite sembrano convergere tutti verso Riyadh - dove oggi sono iniziati i colloqui fra Mosca e Washington - che si va affermando come crocevia di un futuro assetto di politica, e alleanze, regionali e globali. Analisti sottolineano il “ruolo primario” del regno wahhabita e del leader Mohammed bin Salman (Mbs), che da tempo pare essersi trasformato da “principe della guerra” a uomo di “stabilità” interessato più all’economia e alla mediazione, che al frastuono delle armi. 

Riyadh e il ‘file iraniano’

Attacco di Hamas a Israele; guerra russa in Ucraina; la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria e l’indebolimento di Hezbollah in Libano; riavvicinamento fra sauditi e iraniani (mediato dalla Cina); rinnovata alleanza fra Ankara e Qatar, con Doha che ha accolto i vertici del gruppo militante che controlla Gaza e rafforzato il legame con Teheran, che opera da dietro le quinte in Yemen con gli Houthi - e nei mari, a partire da Hormuz - nel tentativo di mantenere il proprio ruolo nella regione. Un nuovo ordine globale sta emergendo, mentre i blocchi economici legati a Russia e Cina cercano nuove vie di espansione e Paesi come Iran e Arabia Saudita - rispettivamente leader del mondo musulmano sciita e sunnita - si riposizionano in un quadro di equilibri incerti.

Secondo fonti della Cnn, il regno saudita si sarebbe proposto in queste settimane come “mediatore” fra Stati Uniti e Iran a partire dal dossier sul nucleare sul quale vorrebbe arrivare a un “nuovo accordo” nel tentativo di congelare il programma atomico degli ayatollah. “Il regno è preoccupato - scrive il network dell’informazione Usa - che l’Iran possa essere più incline a perseguire un’arma nucleare ora che i suoi proxy regionali, a lungo visti come un deterrente contro gli attacchi israeliani, sono stati significativamente indeboliti”. Riyadh vorrebbe sfruttare i contatti col presidente Donald Trump - già ai tempi del primo mandato le relazioni si erano rafforzate dopo il gelo con Barack Obama e nonostante la controversia legata all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018 - per fornire a Teheran un ponte diplomatico. 

Al riguardo non è chiaro se l’Arabia Saudita abbia avanzato “un’offerta formale”, ma è evidente il desiderio di Riyadh di giocare un ruolo di primo piano nella partita contando anche sul miglioramento delle relazioni con l’ex nemico. Assicurandosi, inoltre, un posto al tavolo dei negoziati per un potenziale nuovo accordo sul nucleare con Trump che alterna la minaccia delle armi alla carta diplomatica e, dall’altro, la guida suprema Ali Khamenei che la settimana scorsa ha bollato come “non intelligenti” colloqui con Washington. Nel 2015 Riyadh aveva accolto “ufficialmente” con favore l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa, voluto da Obama), protestando in privato per la mancata attenzione dell’allora inquilino della Casa Bianca alle preoccupazioni saudite, dallo Yemen al Libano. Da qui il sostegno a Trump nel ritiro del patto nucleare che, di conto, aveva determinato un’escalation di attacchi Houthi dallo Yemen in territorio saudita, in particolare verso i pozzi petroliferi. 

Da Gaza ad “Abramo II”

Da allora, però, le tensioni tra Arabia Saudita e Iran si sono notevolmente attenuate e anche il basso profilo mantenuto da Riyadh su Gaza si è rivelato decisivo in un ruolo di mediazione. Nel marzo del 2023 i due Paesi hanno annunciato a sorpresa la normalizzazione delle relazioni, con un accordo mediato dalla Cina che Riyadh ha salutato come un successo del quale ne ha raccolto i frutti nella fase successiva: i lanci di missili Houthi sono cessati e il regno è stato risparmiato dagli attacchi incrociati fra Israele e Teheran dello scorso anno, a dispetto dei timori per le installazioni petrolifere del Golfo. Ecco perché la leadership saudita guarda all’attuale panorama regionale come a una opportunità storica: da un lato per rafforzare i legami con la Repubblica islamica, tenendo però aperta la porta a una “normalizzazione” con Israele nel solco degli “Accordi di Abramo” fra Stato ebraico ed Emirati Arabi Uniti (Eau) al tempo della prima presidenza Trump. 

Inoltre, un eccessivo indebolimento di Teheran non sarebbe funzionale agli interessi sauditi, che hanno ricalibrato la politica estera dando priorità a interessi economici che finirebbero per essere danneggiati da ulteriori instabilità. Firas Maksad, senior fellow presso il Middle East Institute di Washington, sottolinea i principi di “flessibilità e pragmatismo” promossi dal Riyadh: “Segnalare la disponibilità a mediare tra Usa e l’Iran - spiega l’esperto - permette al regno di prendere tacitamente le distanze dalla campagna di massima pressione di Trump contro Teheran”. Ad agitare ancor più le acque il piano della Casa Bianca per Gaza, con gli americani - spalleggiati dal premier israeliano Benjamin Netanyahu - che vogliono “prendere il controllo” della Striscia ed espellere la popolazione palestinese. Una proposta già bocciata dai sauditi che ribadiscono la soluzione dei “Due Stati” israelo-palestinese. Resta il legame saldo fra Casa Bianca e leadership saudita, tanto che lo stesso Trump ha lasciato intendere come Riyadh possa essere la meta del suo primo viaggio all’estero da presidente, dove incontrerà un bin Salman “più saggio e maturo” rispetto al 2017. 

La sfida con gli Emirati

Nella partita sul futuro di Gaza si inserisce la posizione di un altro attore di primo piano della regione, quegli Emirati Arabi Uniti - alleati e rivali di Riyadh - protagonisti della normalizzazione con Israele durante il Trump I che, oggi, sembrano soffrire l’egemonia saudita. Nel tentativo di rinsaldare l’asse con la Casa Bianca (dopo Israele e Riyadh sono l’ultima tappa del tour mediorientale del segretario di Stato Usa Marco Rubio), l’ambasciatore degli Emirati a Washington Yousef al-Otaiba ha detto di non vedere “alternativa” al piano Trump con la cacciata dei palestinesi. A margine del World Government Summit in Dubai ha definito l’approccio Usa “difficile” ma, pur essendo in molti alla ricerca di soluzioni, “non si sa dove si andrà a finire”. “Non vedo un’alternativa - ha sottolineato - a ciò che viene proposto” e anche Abu Dhabi non ha idee diverse.

Parole che riflettono, forse in maniera inconsapevole, la perdita di leadership degli Eau dopo decenni di primato a livello regionale, ormai raggiunta - se non superata - dai sauditi in chiave economica e diplomatica sotto la spinta della “Vision 2030”. Secondo il World Investment Report 2024 della Conferenza Onu per il Commercio e lo sviluppo (Unctad), il valore degli Investimenti diretti esteri (Ide) negli Emirati ammonta a 30,688 miliardi di dollari nel 2023, rispetto ai 22,737 miliardi di dollari del 2022. Impressionante l’aumento registrato da Riyadh, che ha superato il target programmato del 16% raggiungendo i 25,6 miliardi di dollari nel 2023, con afflussi superiori del 50% sul 2022. I sauditi intendono aumentare la quota di commercio e investimenti e sono in una posizione forte per attrarre talenti e aziende. Tuttavia, mentre molte multinazionali straniere - tra cui Apple, Google, Microsoft, Siemens e Persico - hanno aperto nuove sedi in Arabia Saudita, altre hanno optato per due sedi separate a Riyadh e ad Abu Dhabi o Dubai. 

Uno dei riflessi della lotta fra sauditi ed emirati sono le possibili turbolenze interne al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), l’organismo più importante interno al mondo arabo già segnato negli ultimi anni dal boicottaggio - poi rientrato - al Qatar. La competizione fra i due Paesi, unita alla contrapposizione personale fra Mbs e Mbz (il presidente degli Emirati Mohammed bin Zayed), ha esacerbato le tensioni. La lotta complica la capacità dell’organismo di adottare politiche unificate su questioni e crisi regionali, riducendone potenzialmente la rilevanza. Tuttavia, analisti ed esperti ritengono che pur muovendosi a velocità diverse, gli Stati del Ccg hanno adottato sforzi comuni per una integrazione sub-regionale, comprese infrastrutture come strade, ferrovie e porti. La maggior parte degli sconvolgimenti del passato sono legati a questioni politiche più che economiche, mentre la cooperazione più del confronto resterà l’opzione preferita per evitare gravi instabilità. 

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