Cop15 biodiversità: finora l'Asia ha fallito gli obiettivi
Uno studio dell'Università di Oxford dice che solo poche nazioni asiatiche hanno raggiunto gli obiettivi previsti per il 2020. Il continente difficilmente riuscirà a rispettare gli impegni presi a Montreal. Presieduta dalla Cina, la Conferenza internazionale si è conclusa con un accordo che prevede la protezione del 30% delle risorse e il ripristino delle aree degradate entro il 2030. In uno scontro con i Paesi africani, Pechino si è opposta all'istituzione di un fondo apposito.
Milano (AsiaNews) - Si è conclusa ieri a Montreal, in Canada, la Cop15, la Conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla biodiversità (Cdb) con la firma di un accordo globale (non vincolante) per la protezione degli ecosistemi. Oltre 190 Paesi hanno aderito all’intesa, impegnandosi a salvaguardare, tramite l’istituzione di aree protette, il 30% delle risorse del pianeta, e a ripristinare entro il 2030 il 30% delle aree marine e terrestri degradate. Sono previste moltissime altre misure, tra cui il dimezzamento dei rischi legati ai pesticidi, la riduzione dell’utilizzo della plastica e la riconversione di agricoltura, pesca e diboscamento in attività sostenibili. Si raccomanda alle grandi imprese di rendere noto il proprio impatto sugli ecosistemi. Obiettivi ambiziosi, soprattutto se si guarda al precedente piano per la biodiversità per il decennio 2011-2020 i cui propositi non sono stati raggiunti.
Se da una parte sono stati ufficialmente riconosciuti i diritti dei popoli indigeni legati all’ambiente, non è passata la proposta di un fondo apposito per la difesa della biodiversità. L’accordo prevede che entro il 2025 vengano versati ai Paesi in via di sviluppo 20 miliardi di dollari in aiuti annuali da parte dei Paesi economicamente avanzati, cifra che salirà poi a 30 miliardi entro il 2030. Ma questi finanziamenti dal Nord del mondo confluiranno in un meccanismo già esistente, il Fondo verde per il clima, il cui maggior beneficiario è la Cina. Proprio Pechino che, sebbene sia la seconda economia al mondo, alle conferenze internazionali sul clima adotta spesso una posizione da Paese in via di sviluppo, si è opposta alle posizioni dei Paesi africani che chiedevano l’istituzione di un fondo apposito per la biodiversità.
La Conferenza avrebbe dovuto svolgersi a Kunming (nella provincia dello Yunnan), ma è stata trasferita in Canada a causa del Covid-19. Il presidente Xi Jinping ha presieduto per via telematica l’apertura dei lavori della seconda parte del vertice, affermando - in base a quanto riportato su Twitter dall’ambasciata cinese in Italia - che “la Cina ha compiuto sforzi attivi per promuovere il progresso ecologico e la protezione della biodiversità e la stabilità e la sostenibilità del suo ecosistema hanno continuato a migliorare trovando un percorso di tutela della biodiversità con caratteristiche cinesi”. La Cina è tra i Paesi asiatici che hanno centrato il target di proteggere il 17% delle terre entro il 2020 grazie all’istituzione di oltre 2.600 riserve naturali, ma alcuni studi evidenziano il perdurare di minacce alla biodiversità a livello provinciale, soprattutto nelle regioni sud-occidentali.
In realtà, secondo diverse indagini, l’Asia, tra tutte le aree del mondo, è quella che registra le peggiori performance in termini di protezione della biodiversità, con risultati particolarmente negativi registrati per i Paesi occidentali e meridionali. Una ricerca dell’Università di Oxford pubblicata alla fine del mese scorso dice chiaramente che il continente asiatico è stato il più inadempiente nel raggiungimento dell’obiettivo che la comunità internazionale aveva fissato per il 2020, cioè la protezione del 17% delle terre, e - scrivono gli studiosi inglesi - “in base alle tendenze attuali, le prospettive di raggiungere l'obiettivo del quadro globale per la biodiversità per il 2030 di proteggere almeno il 30% della terra sono desolanti, e l'Asia è destinata a mancarlo con un margine ancora maggiore”.
Il continente asiatico, infatti, ospita grandi varietà di esseri viventi ma anche più del 60% della popolazione globale, che continua a crescere a tassi più veloci rispetto al resto del mondo. Ciò si tradurrà in una maggiore produzione di cibo e di riconversione delle terre in terreni agricoli, ragione per cui secondo gli esperti, entro il 2050 l’Asia sperimenterà i più alti tassi di perdita di habitat di tutto il mondo. Una situazione - sottolineano ancora i ricercatori di Oxford -, che potrebbe essere ulteriormente aggravata dalle pressioni sulla biodiversità provocate dallo sviluppo della Belt and Road Initiative, il mega progetto infrastrutturale cinese che ha per obiettivo di migliorare i rapporti commerciali con il resto dell’Asia e parti dell’Europa.
Tra il 2010 e il 2020 solo Myanmar e Thailandia hanno ridotto le superfici di aree protette, mentre ad aumentarle di oltre il 10% sono stati Indonesia, Cambogia, Corea del Sud e Giappone.
26/07/2018 14:36
18/01/2007