Continua la strage tibetana, altri due giovani si sono dati fuoco
Delhi (AsiaNews) - Due giovani tibetani della provincia cinese di Gansu si sono dati fuoco e sono morti per le gravi ustioni riportate. Il fatto è avvenuto nel pomeriggio di ieri, in una delle settimane peggiori per la comunità in lotta contro quello che definiscono "l'imperialismo di Pechino" e il "genocidio culturale" della minoranza. In pochi giorni, infatti, ben cinque persone si sono auto-immolate per la causa, portando così a nove le vittime nel solo mese di ottobre e a 60 dal febbraio 2009, quando sono riesplose le proteste contro la Cina per una piena libertà religiosa e per chiedere il ritorno in patria del leader spirituale dei tibetani, il Dalai Lama.
Nel primo caso, a darsi fuoco è stato il 24enne Lhamo Tseten verso le 2.30 del pomeriggio ora locale. Il giovane si è auto-immolato nei pressi di una caserma della People's Armed Police nella cittadina di Amchok, contea di Sangchu, nella Prefettura autonoma tibetana di Kanlho. L'altro episodio è avvenuto sei ore più tardi quando il 21enne Tsepak Kyab - di origini tibetane ma residente da anni in India - è morto per le ustioni riportare nella strada principale della cittadina di Sangkhok, anch'essa a Sangchu.
Lhamo Tseten si è immolato dopo aver pranzato con un gruppo di amici. "È uscito lentamente dal locale - racconta un testimone - e, tra urla della folla, è corso per la strada avvolto dalle fiamme". Egli lanciava slogan per la libertà del Tibet e il ritorno del leader spirituale, il Dalai Lama, poi è caduto a terra e ha unito le mani, continuando a urlare. Il suo cadavere è stato rimosso dalla folla, con la polizia cinese che si è tenuta a debita distanza nel timore di ritorsioni. Al momento di darsi fuoco, anche Tsepak Kyab urlava slogan e frasi contro Pechino e per il rilascio di prigionieri politici tibetani, fra i quali il Panchen Lama (la seconda autorità religiosa in Tibet, sequestrato dalla Cina nel 1995 quando era solo un bambino). Il corpo è stato trasportato nella sua abitazione, per il rito funebre e le preghiere.
Commentando l'ennesima auto-immolazione Stephanie Brigden, direttrice di Free Tibet, gruppo con base a Londra, sottolinea che "la politica cinese in Tibet si è rivelata un fallimento completo". L'attivista si rivolge alla "futura leadership" di Pechino, affinché riconosca che "devono rispondere alla richiesta di libertà che viene rivolta loro dai tibetani". Il gruppo riferisce inoltre che nella zona teatro dei roghi le autorità cinesi hanno sospeso la connessione internet e "un gran numero" di agenti e del personale della sicurezza è stato dislocato nell'area per prevenire altri gesti di protesta estrema.
Per arginare il dramma di monaci e gente comune che decide di darsi fuoco, la comunità tibetana in esilio ha deciso di riunirsi in seduta plenaria a fine settembre, per la prima volta in quattro anni, per proporre una nuova politica che possa fermare questa serie di suicidi. Oltre 400 tibetani da tutto il mondo - delegati eletti nelle varie comunità della diaspora - si sono riuniti a Dharamsala, sede del governo del Dalai Lama sin dalla fuga da Lhasa. Invece di adottare una politica conciliatoria, il Partito comunista cinese in Tibet ha aumentato il livello di repressione. I monasteri della regione sono blindati e guardati a vista dalla polizia speciale, le lezioni di lingua tibetana sono proibite, la pratica religiosa è di fatto impedita. Il Partito è arrivato a proibire le auto-immolazioni "pena una condanna in carcere di 5 anni". Il Dalai Lama, leader spirituale della comunità, ha detto più volte di "comprendere" i motivi che spingono al sacrificio, ma ha chiesto ai suoi fedeli di "non sprecare" le proprie vite.