16/04/2015, 00.00
CINA
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Cina, crolla l’economia: il governo al bivio fra nuovi stimoli e rischio implosione

I dati sul primo trimestre del 2015 confermano i dubbi degli analisti: la seconda economia al mondo è in flessione. Il tracollo del surplus commerciale e quello dell’import-export sono sintomi di un mercato malato e drogato dall’iniezione di capitali da parte della Banca centrale. L’esecutivo vuole muovere verso un sistema più sostenibile, ma per farlo rischia una rivolta sociale.

Pechino (AsiaNews) – Il calo dell’economia cinese e soprattutto il tracollo del surplus commerciale iniziano a preoccupare non soltanto gli investitori, ma soprattutto l’esecutivo centrale di Pechino. I dati relativi al primo trimestre 2015 confermano la flessione generale dell’economia nazionale, ma per uscire da questa situazione – scrivono analisti ed esperti – il governo ha soltanto due strade: continuare a drogare il settore con massicce iniezioni di capitali oppure rendere più sostenibile l’economia. Affrontando però un lungo periodo di stagnazione economica con conseguente disoccupazione e calo del potere d’acquisto.

Nel primo trimestre del 2015, l’economia cinese è cresciuta al ritmo più lento degli ultimi sei anni. La causa di questa flessione è variegata: il sistema è appesantito dai crolli del mercato immobiliare, dall’eccesso di capacità del settore e dal ristagno della domanda all’estero. Tuttavia, tranne che per l’ultimo punto, si tratta di sintomi provocati dall’enorme flusso di capitali iniettati dal governo – attraverso la Banca centrale del Popolo – per sostenere i ritmi di crescita innescati dalle riforme di Deng Xiaoping negli anni Ottanta del secolo scorso.

Nello specifico, gli attesi dati sull’import-export di marzo 2015 indicano in entrambi i campi un calo verticale: tracollo invece per il surplus commerciale, che ha perso 62,6 punti percentuali. Le importazioni sono calate del 12,3%, mentre le esportazioni hanno perso 14,6 punti.

Gli analisti prevedevano al contrario un aumento dell’export di almeno 12 punti; per l’import era prevista una flessione, ma non così marcata. Il surplus, invece dei 45 miliardi di dollari previsti, si è fermato a 2,93 miliardi. Nie Wen, esperto del Hwabao Trust di Shanghai, spiega: “Il calo nelle esportazioni è dovuto in gran parte alla domanda mondiale, ancora debole a causa della crisi. E poi va considerato l’apprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute, che nell’ultimo trimestre ha peggiorato le cose. Servono maggiori stimoli centrali all’economia”.

L’unico momento in cui l’economia nazionale ha mostrato segni di stallo simili a questo si è verificato nel primo trimestre del 2009, nel bel mezzo della crisi finanziaria internazionale, quando la crescita è stata del 6,6%. Secondo alcuni analisti il rallentamento del primo trimestre e il deterioramento a marzo dell’attività industriale – che ha visto la produzione aumentare del 5,6% su base annua rispetto al 6,9% delle stime – indicano che il Paese ancora fatica a rilanciare l’export. Questo, scrivono soprattutto i media americani, fa prevedere il ricorso da parte di Pechino a nuovi stimoli per risollevare la situazione.

Fa riflettere, sottolinea il South China Morning Post, il fatto che l’Assemblea nazionale del Popolo si sia concentrata su obiettivi “del tutto prevedibili”: un tasso annuale di crescita intorno al 7% annuo, inflazione in leggera caduta al 3% e disoccupazione al 4,5%. Anche se le cifre assolute sono ancora di tutto rispetto, rimane senza risposta il dubbio relativo alla qualità della produzione industriale cinese. L’obiettivo di lungo periodo della politica economica cinese è la ristrutturazione di un’economia ossessionata dagli obiettivi quantititavi verso un modello più “occidentale” incentrato sulla qualità.

Rilevante in questo senso è anche l’ingresso a pieno titolo della seconda economia mondiale nel sistema finanziario internazionale. Finora le restrizioni ai movimenti di capitale e alla conversione dello yuan – ancora non inserito nel paniere valutario internazionale – hanno di fatto permesso a Pechino di evitare la prova degli investitori internazionali e mantenere un ferreo controllo sull’allocazione del risparmio interno. Di questa repressione finanziaria hanno beneficiato le banche pubbliche e gli interessi politico-affaristici che vi ruotano attorno. Con la creazione del polo finanziario che unisce le Borse di Shanghai e Hong Kong, invece, la Cina rischia di esporre la fragilità finanziaria di un’economia tarata da un rapporto tra debito e Pil che supera il 250%.

La sfida a lungo termine, scrive Bloomberg, è quella di “dare all’economia cinese un sistema più sostenibile. Con un valore attuale pari a 10,4mila miliardi di dollari, questa ha bisogno di sviluppare un migliore e più appetibile settore dei servizi e non dipendere in maniera così pesante dalle banche statali per allocare capitali”. Zhang Bin, ricercatore dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino, è d’accordo: “Siamo davanti a un periodo molto critico di ristrutturazione. Ma anche avere un Pil più basso del solito non è un male: anzi è il fattore necessario per il cambiamento”.

Per quanto ottimista, questa analisi non tiene conto però del fattore sociale. Con il calo del Prodotto interno lordo aumenterà la disoccupazione e diminuirà in maniera sensibile il potere d’acquisto della media della popolazione nazionale. Combinati, questi due fattori potrebbero scatenare massicce proteste sociali – già in crescita esponenziale nonostante il pugno di ferro di Xi Jinping – arrivando persino a mettere in dubbio il sistema politico monopartitico dominato dal regime comunista.

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