Caritas Siria fra gli sfollati di Ghouta: le ferite ancora aperte della guerra
I costi del conflitto sfiorano i 400 miliardi. L’ente cristiano ha distribuito migliaia fra cesti alimentari e pannolini agli sfollati dell’enclave ribelle alla periferia di Damasco. Le storie di sofferenza e privazione di donne, uomini e bambini. La necessità di ricostruire ponti fra persone per assicurare un futuro al Paese.
Damasco (AsiaNews) - I sette anni di guerra in Siria hanno provocato danni e devastazioni per quasi 388 miliardi di dollari. È quanto affermano gli esperti delle Nazioni Unite, al termine di una due giorni di incontri in Libano che ha riunito oltre 50 fra esperti siriani e internazionali. La cifra non comprende “le perdite umane derivanti da decessi o perdite di competenze e lavoratori qualificati”.
In questi giorni Caritas Siria ha distribuito 1480 cesti alimentari alle famiglie sfollate della Ghouta orientale, area alla periferia di Damasco per lungo tempo controllata dai ribelli in lotta contro il presidente Bashar al-Assad. Gli attivisti cristiani hanno consegnato a una popolazione in condizioni di estremo bisogno anche un migliaio di cestini di frutta e verdura e 600 pacchi contenenti pannolini per i più piccoli. A raccontare la giornata è Sandra Awad, responsabile Comunicazione di Caritas Siria, sposata e madre di due figli, che assieme a un gruppo di colleghi ha varcato la soglia del centro di accoglienza e raccolto le testimonianze disperate di uomini, donne e bambini (nelle foto). Una giovane malnutrita all’ottavo mese di gravidanza e un parto a rischio, un uomo che lotta per assicurare un po’ di cibo ai figli, un ragazzino che ha perso i genitori e vive pervaso dall’ira. Un dramma comune, che non cancella però la speranza - e il desiderio - di un futuro di pace e di convivenza per il Paese.
Ecco, di seguito, la testimonianza della responsabile Caritas. Traduzione a cura di AsiaNews.
Sono scesa dall’autobus e i miei piedi hanno calcato il terreno sabbioso del deposito di manufatti elettrici nel distretto industriale di Adra, all’interno del quale hanno trovato accoglienza migliaia di famiglie di sfollati che hanno abbandonato i villaggi della Ghouta. Mi sono guardata attorno e mi sentivo nervosa, come tutti gli altri colleghi che mi accompagnavano. Davanti a noi, tutto attorno a noi, una folla oceanica di persone. Gente dalla pelle scurita, bruciata dal sole, che si trascina con vestiti laceri e ai piedi scarpe di plastica. Polvere che si mescola con il dolore, la noia, la disperazione che si mescola sui loro volti.
Uomini sdraiati a terra, su letti di fortuna gettati qua e là alla rinfusa. E le donne, una moltitudine di donne circondate da bambini, troppi bambini, nati in mezzo alla povertà, alla guerra, al vuoto del nulla. Per quanto mi riguarda, ho lasciato che i miei piedi mi guidassero attraverso quel mare di vite umane che mi erano del tutto estranee sperando di capire qualcosa in più, anche solo un pochino, di questa feroce guerra che ci ha colpito tutti nel profondo.
Qualche minuto più tardi, una donna dalla pelle scura mi ferma e mi dice: “Posso farle una domanda, signora? C’è un qualcosa che mi preoccupa e vorrei un suo consiglio. Sono incinta all’ottavo mese. La prego, non mi guardi in questo modo, lo so che non sembra vero, ma giuro su Dio che sono all’ottavo mese, e questo significa che entro il mese prossimo dovrò partorire e sono preoccupata perché il mio ventre non è ancora cresciuto. Al centro medico mi hanno detto che le dimensioni dell’embrione sono troppo piccole per la sua età. Cosa ne pensa? Secondo lei il bambino potrebbe soffrire di una qualche malattia? Cosa posso fare?”.
Mi sono sentita profondamente triste e le ho detto: “Non saprei davvero cosa risponderle. Se si parla di questioni mediche, io non sono certo un’esperta”.
All’improvviso sento una voce alle mie spalle che urla: “E come potrebbe mai crescerle la pancia, se soffre di malnutrizione? Un pezzo di pane secco con una tazza di tè è tutto quello che è riuscita ad avere da questa mattina”.
Ho guardato la donna che stava parlando e ho subito capito che si trattava della madre della giovane donna incinta, per via della grande somiglianza fra le due figure. Mi sono rivolta a lei in questo modo: “Allora il cesto di alimenti che stai per ricevere ti sarà di grande beneficio, potrà servirti per nutrire sia te che il tuo bambino per qualche tempo”. “Sì, è così” mi ha risposto. “Spero che il parto vada bene - ho proseguito - che goda di buona salute e tu possa tenerlo stretto fra le tue braccia”.
Ho guardato la giovane negli occhi e potevo scorgere nel profondo i suoi dubbi, i timori, l’ansia che la attanagliava. Ha concluso con un laconico: “Sì, lo spero davvero”.
Assieme a uno dei miei colleghi ho proseguito il tour del centro, fino a imbatterci in un’area dove erano state piantate diverse tende di colore verde. Nel mezzo della strada che conduceva alle tende si trovavano due grosse taniche utilizzate per il deposito di acqua, ciascuna delle quali recava impresso il simbolo della Croce rossa e della Mezzaluna crescente. Uomini e donne si abbeveravano da quella sorgente, trovando un po’ di sollievo in una giornata estremamente calda.
Ho contemplato la croce la luna crescente che erano apposte sulle due taniche, e ho avvertito una sensazione di grande felicità. Entrambe si trovavano l’una accanto all’altra, a poca distanza, pronte a soddisfare la sete degli abitanti del centro provati nel profondo a causa di un periodo di grandi privazioni.
Questa immagine mi ha fatto tornare in mente come, qualche giorno prima, anche noi della Caritas (una organizzazione cristiana) abbiamo lavorato a lungo e duramente assieme alla Blessing Reserve Islamic Organization per preparare, in un’atmosfera di puro amore, i pacchi alimentari che sarebbero stati distribuiti in questo centro di accoglienza. Nella speranza, forse vana, di poter spegnere la loro sete di cibo almeno per qualche tempo e soddisfare l’estremo bisogno di attenzione che emerge dai loro cuori infranti.
Dopo qualche tempo ho fatto ritorno nella piazza principale e, proprio in quel momento, ho visto arrivare il camion che trasportava le scorte alimentari. All’improvviso, la marea di gente si è trasformata in tempesta come se un temporale imprevisto si fosse abbattuto nella zona, mentre tutti si affrettavano verso le porte del mezzo, spingendosi l’un l’altro.
Nel mezzo della calca che si era formata attorno a me, che ho tentato di evitare con grande difficoltà, ho visto un uomo cadere davanti ai miei occhi, mentre gridava a pieni polmoni: “Al diavolo, che vita è questa! Non è null’altro che una continua umiliazione”. Egli si è rimesso in piedi a fatica e si è messo a correre in tutta fretta verso il camion, per assicurarsi un posto nella fila e recuperare qualcosa da mangiare, con un senso di profonda dignità e la speranza di riuscire a sfamare, anche solo per poco, i suoi bambini.
Nemmeno il tempo di riprendermi, che qualcuno ha iniziato a chiamarmi da dietro le spalle. Mi sono voltata e ho visto una donna di circa vent’anni che teneva per mano un bambino. “Signora - ha detto - vorrei rivolgerle una domanda: Avete dei pannolini taglia grande, che possano andare bene a mio figlio? Ha otto anni e fatica a trattenersi quando deve andare in bagno”. Ho guardato il bambino e ho potuto scorgere delle tracce di urina sui suoi vestiti.
“Temo che non ve ne siano di quelle dimensioni” le ho risposto. “Li abbiamo comprati solo per i più piccoli, ma cosa gli è successo? Lo ha visto un dottore?”. “Certo - ha replicato - ma hanno detto che non si tratta di un problema di natura organica… Forse il problema è causato dagli attacchi di panico che egli ha sperimentato durante i periodi più bui della guerra”. Mi sono voltata, in preda allo sconforto, e ho continuato la mia camminata provando un senso di inadeguatezza di fronte ai grandi bisogni, alle paure, ai dolori delle persone. Ma cos’è tutto questo dolore?!
Intanto il tempo era passato ed era giunto il momento di andare via. Sento il richiamo dei miei colleghi, la maggior parte dei quali erano già a bordo del pulmino pronto a ripartire. Mi sono diretta verso di loro inseguita da un ragazzino infuriato che, assieme ad un amico, mi raccontava le proprie sventure con un carico di odio e risentimento enormi e pronte a esplodere. Nelle vicinanze una donna, che a causa della guerra ha perso un figlio e si dice pronta ad accogliere e prendersi cura del ragazzo. Finora invano, perché il giovane [di 12 anni, anche se ne dimostra poco più di otto] ha sempre rifiutato qualsiasi aiuto. Prima di salire sul bus la donna mi raggiunge e mi domanda: “Viene da Damasco?”. Le rispondo di sì. “La vita è buona a Damasco” prosegue. “Nessuno prova le sofferenze che sperimentiamo noi, qui”.
“Mi creda - le rispondo - le sofferenze hanno colpito tutti noi, senza distinzioni. Non deve pensare che gli abitanti di Damasco non soffrano e non provino dolore. Siamo stati tutti colpiti in un modo o nell’altro, il dolore è comune, penso che sia giunto il tempo per tutti noi di unirci mano nella mano e affrontare, uniti, il male e trovare il modo di guarirne”. Non so dire se le mie parole abbiano avuto un impatto sulla donna, ma non credo che sia successo perché il dolore che provava per la morte del figlio le avevano invaso il cuore e le avevano persino prosciugato le lacrime.
Sono salita sul pullman e mi sono seduta, stravolta dalla fatica e con un cuore pesante. Mi tornavano alla mente le scene di distruzione che abbiamo potuto vedere sulla strada verso il centro… Queste scene, a dispetto della loro crudeltà, non mi hanno piegato perché so che le pietre, prima o poi, possono essere ricostruite. Ma si può dire lo stesso in merito alla ricostruzione di ponti fra cuori divisi fra loro?”.
Ho guardato attraverso il finestrino, osservando i miei nuovi amici che agitavano la mano in saluto e mi spedivano dei baci. Ho sorriso… Davvero, dal profondo del cuore è salito un sorriso e una rinnovata forza ha invaso il mio corpo. Una speranza vera, profonda, è possibile… Vi è ancora così tanta speranza per questo mondo.
* Responsabile della Comunicazione Caritas Siria