Cala la forza lavoro. L’industria cinese verso un cambiamento epocale
Diminuisce la forza-lavoro e ne aumenta il costo, calano i profitti e i capitali fuggono verso Vietnam e Indonesia. Esperti: per proseguire la crescita, la Cina deve riconvertire l’industria da manifatture a basso costo in prodotti di alta qualità, dall’aerospaziale alle telecomunicazioni.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – La diminuzione di mano d’opera a basso costo e l’aumento del prezzo delle materia prime sta colpendo le industrie manifatturiere cinesi, spina dorsale della forte esportazione del Paese. La Cina, per continuare a crescere, dovrà trasformare l’industria, aumentandone la meccanizzazione e puntando su settori come l’alta tecnologia.
La legge del figlio-unico, introdotta a fine anni ’70 e applicata con determinazione, ha creato e creerà nel Paese una progressiva diminuzione dell’offerta di mano d’opera, finora soprattutto basata sulle centinaia di milioni di lavoratori migranti disposti a lavorare per bassi salari in fabbriche di abbigliamento, giocattoli e mobili. Si prevede che entro il 2025 la fascia di età tra 15 e 24 anni, principale forza lavoro per la manifatture, scenderà a 164 milioni, con diminuzione di altri 62 milioni circa di persone.
La minore disponibilità di forza-lavoro si accompagna con il progressivo riconoscimento di diritti basilari per i lavoratori cinesi, come la paga minima. L’aumento del costo del lavoro già induce parecchie ditte estere, ma anche cinesi, a investire in altri Paesi, come il Vietnam, dove minore è il costo della mano d’opera e i lavoratori hanno meno diritti.
Nel 2010 le esportazioni sono state per il 68% di manifatture, per 1.090 miliardi di dollari rispetto ai 544 miliardi del 2005, ma è in crescita il settore hi-tech con 492 miliardi, il 31% del totale, rispetto ai 218 miliardi del 2005.. Le esportazioni sono circa il 20% dell’economia cinese.
Ma un’indagine ad agosto tra oltre 200 imprese piccole e medie di Shanghai, riportata dall’Oriental Morning Post, ha già registrato una rapida diminuzione dei profitti, per la difficoltà ad affrontare la scarsità di mano d’opera e l’aumento dei costi di produzione.
Ora esperti dicono che Pechino, per proseguire la crescita, deve aumentare la produzione di alta tecnologia, come strumenti medici, aviazione, aerospaziale, software, computer e telecomunicazioni.
Sun Mingchun, analista di Daiwa Capital Markets a Hong Kong ed ex economista della banca centrale cinese, spiega che lo stesso è successo in Giappone nel 1969 e Corea del Sud nel 1988, le cui industrie da manifatturiere si sono dedicate alla produzione di alta tecnologia e altri prodotti di valore. Allora il Giappone passò da una crescita del 10,4% negli anni ’60 a un media del +5,2% nel 1970/1979, e la Corea dal +12,3% medio degli anni ’80 al 6,3% del periodo 1989/1998. Egli ritiene che le industrie cinesi hanno circa 5 anni per la riconversione, altrimenti nel periodo 2016/2020 prevede il declino della crescita e un progressivo crollo degli investimenti.
Esperti osservano che l’esito non è scontato: solo 5 economie (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong) sono passate da nazioni a basso reddito a Paesi sviluppati mantenendo una crescita media abbastanza alta.
Mentre la crescita cinese già rallenta (stimata al 9,2% in questo trimestre rispetto al +9,5% di aprile-giugno), il Paese deve contenere una grave inflazione che marcia sul 6,2%, ma è più che doppia per alimentari e altri prodotti essenziali per i redditi bassi e spinge in alto i salari degli operai.
Molti imprenditori affrontano la sfida con sicurezza. Dicono che vogliono cancellare la diffusa convinzione che la Cina sappia produrre solo giocattoli, vestiti e prodotti economici ma di bassa qualità e vogliono espandersi nei settori di avanguardia. Altrimenti, tutti prevedono un progressivo declino dell’industria, con gli investitori diretti verso regioni di basso costo della mano d’opera, come Vietnam, Bangladesh, Indonesia e la stessa Cina occidentale.
Intanto il ministero per il Commercio propone esenzioni fiscali e altri incentivi per le imprese del superindustrializzato Guangdong che vogliano aumentare tecnologia e ricerca nei prossimi 3 anni.
La legge del figlio-unico, introdotta a fine anni ’70 e applicata con determinazione, ha creato e creerà nel Paese una progressiva diminuzione dell’offerta di mano d’opera, finora soprattutto basata sulle centinaia di milioni di lavoratori migranti disposti a lavorare per bassi salari in fabbriche di abbigliamento, giocattoli e mobili. Si prevede che entro il 2025 la fascia di età tra 15 e 24 anni, principale forza lavoro per la manifatture, scenderà a 164 milioni, con diminuzione di altri 62 milioni circa di persone.
La minore disponibilità di forza-lavoro si accompagna con il progressivo riconoscimento di diritti basilari per i lavoratori cinesi, come la paga minima. L’aumento del costo del lavoro già induce parecchie ditte estere, ma anche cinesi, a investire in altri Paesi, come il Vietnam, dove minore è il costo della mano d’opera e i lavoratori hanno meno diritti.
Nel 2010 le esportazioni sono state per il 68% di manifatture, per 1.090 miliardi di dollari rispetto ai 544 miliardi del 2005, ma è in crescita il settore hi-tech con 492 miliardi, il 31% del totale, rispetto ai 218 miliardi del 2005.. Le esportazioni sono circa il 20% dell’economia cinese.
Ma un’indagine ad agosto tra oltre 200 imprese piccole e medie di Shanghai, riportata dall’Oriental Morning Post, ha già registrato una rapida diminuzione dei profitti, per la difficoltà ad affrontare la scarsità di mano d’opera e l’aumento dei costi di produzione.
Ora esperti dicono che Pechino, per proseguire la crescita, deve aumentare la produzione di alta tecnologia, come strumenti medici, aviazione, aerospaziale, software, computer e telecomunicazioni.
Sun Mingchun, analista di Daiwa Capital Markets a Hong Kong ed ex economista della banca centrale cinese, spiega che lo stesso è successo in Giappone nel 1969 e Corea del Sud nel 1988, le cui industrie da manifatturiere si sono dedicate alla produzione di alta tecnologia e altri prodotti di valore. Allora il Giappone passò da una crescita del 10,4% negli anni ’60 a un media del +5,2% nel 1970/1979, e la Corea dal +12,3% medio degli anni ’80 al 6,3% del periodo 1989/1998. Egli ritiene che le industrie cinesi hanno circa 5 anni per la riconversione, altrimenti nel periodo 2016/2020 prevede il declino della crescita e un progressivo crollo degli investimenti.
Esperti osservano che l’esito non è scontato: solo 5 economie (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong) sono passate da nazioni a basso reddito a Paesi sviluppati mantenendo una crescita media abbastanza alta.
Mentre la crescita cinese già rallenta (stimata al 9,2% in questo trimestre rispetto al +9,5% di aprile-giugno), il Paese deve contenere una grave inflazione che marcia sul 6,2%, ma è più che doppia per alimentari e altri prodotti essenziali per i redditi bassi e spinge in alto i salari degli operai.
Molti imprenditori affrontano la sfida con sicurezza. Dicono che vogliono cancellare la diffusa convinzione che la Cina sappia produrre solo giocattoli, vestiti e prodotti economici ma di bassa qualità e vogliono espandersi nei settori di avanguardia. Altrimenti, tutti prevedono un progressivo declino dell’industria, con gli investitori diretti verso regioni di basso costo della mano d’opera, come Vietnam, Bangladesh, Indonesia e la stessa Cina occidentale.
Intanto il ministero per il Commercio propone esenzioni fiscali e altri incentivi per le imprese del superindustrializzato Guangdong che vogliano aumentare tecnologia e ricerca nei prossimi 3 anni.
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