Buriati caduti in Ucraina diventano ‘santi’
Sono tra i tanti mandati dalle province sperdute della Russia a combattere contro Kiev. A casa sono visti come dèi, incapaci di poter compiere cattive azioni. L’arruolamento è la loro unica opportunità lavorativa. Ortodossi in Buriazia vedono “segni mistici” della vittoria russa contro tutti i nemici.
Mosca (AsiaNews) – Nel cimitero di Kjakhta, città della Buriazia siberiana, sono appoggiate sulla terra alcune decine di bare, accatastate ordinatamente in alcune file, con i nomi dei defunti scritti su un lato a pennarello: tutti soldati caduti nella guerra in Ucraina. “Non vi preoccupate, sono vuote”, spiega la guardiana del camposanto, Elena Takhtaeva, aprendone una a scopo dimostrativo. “Sono solo le casse da trasporto, da qui prendono i corpi nello zinco e li mandano all’obitorio, da dove tornano in bare molto più solenni, e allora si fa il funerale”, aggiunge Elena con un sospiro: “Siete in cielo, ragazzi, avete fatto la volontà di Dio”.
La guardiana assomiglia a un personaggio delle antiche fiabe russe, col vestito giallo chiaro e il golfino nero con le rose arancioni. Lavora qui da otto anni per il parroco locale, p. Oleg Matveev, dopo un periodo passato in un monastero ortodosso. Conosce per nome tutti i ragazzi defunti che portano qua, “ragazzi in gamba, veri credenti”, e fa mettere da parte al figlio, scavatore di tombe, le bare “ucraine” ormai vuote, “serviranno ai defunti senza parenti”.
Kjakhta ha 20mila abitanti ed è lontana 230 chilometri dalla capitale buriata Ulan-Ude, che si raggiunge attraversando la frontiera con la Mongolia. Vicino alla città si vede una lunga serie di grandi edifici grigi, che ospitano la 37° brigata della Guardia speciale, la principale soluzione lavorativa per i giovani della zona. Almeno una cinquantina di giovani provenienti da qui ha perso la vita in Ucraina. Non ci sono su di essi documenti ufficiali, ma la stampa locale ne scrive come dei martiri e angeli della Patria, con le orchestre funebri che suonano quasi ogni giorno per le strade della città.
Un giornalista di Kjakhta, Aleksandr Farfutdinov, racconta di assistere nelle caserme ogni giorno a scene di devozione, con candele accese davanti alle fotografie dei caduti, e persone che pregano e piangono davanti a esse. “Sono i nostri migliori figli”, racconta Aleksandr, che non crede alle accuse di violenze brutali diffuse in Ucraina contro alcuni membri della 37° brigata. “Possono litigare e picchiarsi tra di loro, ma non sono capaci di offendere nessuno, tanto meno partecipare alla tortura di altri”. Farfutdinov racconta di un giovane soldato, suo parente, che dopo alcuni giorni di guerra ha telefonato dicendo di aver rubato per la prima volta in vita sua del cibo, dopo aver a lungo vagato affamato per i campi, “e me ne vergogno molto”.
Uno storico locale, Aleksandr Kuzkin, legge poesie di sua composizione sulla piazza centrale di Kjakhta, che esaltano la storia della cittadina. “Un tempo i cinesi portavano il tè in Russia passando da noi, gli abitanti locali avevano un sacco di soldi, tanto che ci chiamavano la città dei milionari, una specie di Venezia mongolica”. Qui si costruivano chiese, scuole, teatri, c’era anche un planetario. Solo sulla centrale via Lenin si sono conservate le antiche case dei mercanti.
Kuzkin esprime la nostalgia di un paese pacifico, che ora teme non tornerà più a vivere come un tempo. Egli è uno dei pochi abitanti che non si esalta per le gesta dei soldati buriati, tra i più impegnati nelle armate russe in Ucraina. Anche il direttore del museo locale, Bair Tsyrempilov, ripete che “il popolo e l’esercito sono una cosa sola”, e mostra con orgoglio ai visitatori la sala principale dedicata alla Grande guerra patriottica con il reperto principale, un “glorioso fucile Maksim”. La scritta all’ingresso è stata modificata in “muZej”, il museo della Zeta putiniana.
“Prima non facevamo caso ai soldati” – afferma Tsyrempilov – “e ora che si sono lanciati alla difesa della Patria, sono diventati i nostri dèi, sostituendo i medici al tempo della pandemia”. Egli racconta la “storia divina” di quando, la notte tra il 24 e il 25 febbraio, nella sala del museo dedicata alla Chiesa ortodossa è suonato l’allarme: due icone del Salvatore sono cadute su quella della Madre di Dio, che è crollata a terra, “ma non si è prodotta neanche una crepa”. P. Matveev ha assicurato che si tratta di un “segno mistico”, che annuncia la vittoria della Russia contro tutti i nemici, e ora predica che i caduti di Kjakhta “sono i nostri santi”.
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