Bennett, al Sisi e bin Zayed a Sharm el-Sheikh per contrastare l'Iran
Nell'incontro tra capi di Stato e di governo di Egitto, Emirati e Israele si è discusso delle implicazioni del conflitto russo-ucraino nella regione, ma anche dell'alleanza regionale in chiave anti-iraniana. Secondo l'intelligence isrealiana l'accordo sul nucleare sarà presto concluso.
Il Cairo (AsiaNews/Agenzie) - Il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi, il principe ereditario di Abu Dhabi Muhammad bin Zayed e il primo ministro israeliano Naftali Bennett si sono incontrati il 22 marzo a Sharm el-Sheikh allo scopo, velatamente dichiarato, di contrastare l’influenza iraniana nella regione.
Secondo il comunicato della presidenza egiziana i tre leader hanno discusso riguardo le implicazioni della guerra in Ucraina, comprese le questioni di sicurezza energetica e di approvvigionamento alimentare. I tre capi di Stato hanno parlato anche del rafforzamento delle relazioni diplomatiche e dell’importanza della cooperazione e del dialogo per raggiungere la crescita e la stabilità in Medio Oriente, ha dichiarato l’agenzia stampa degli Emirati. Le stesse motivazioni sono state riportate dall’ufficio del premier israeliano, che ha sottolineato gli sforzi di mediazione dello Stato ebraico nel conflitto russo-ucraino. Tutti e tre i Paesi hanno di recente subito le pressioni americane di unirsi alle sanzioni occidentali e isolare la Russia, e nel caso degli Emirati, di aumentare le produzione di greggio nel tentativo di far scendere i prezzi del petrolio.
Ma in realtà era da dicembre, dopo la visita di Bennett ad Abu Dhabi, che questo summit era previsto. Sullo sfondo resta infatti l’accordo sul nucleare iraniano, osteggiato da Israele e che, nonostante i ritardi causati dall’invasione russa dell’Ucraina, potrebbe presto trovare una quadra. Il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), siglato dall’amministrazione Obama nel 2015 e stracciato tre anni dopo dall’amministrazione Trump, dovrebbe prevedere la revoca delle sanzioni contro l’Iran in cambio di uno stop allo sviluppo del programma nucleare. L’indiscrezione secondo cui, come parte dell’accordo, le Guardie della rivoluzione iraniane sarebbero state rimosse dalla lista statunitense dei gruppi terroristici, aveva causato nei giorni le ire di Tel Aviv, Riyadh e Abu Dhabi.
Secondo alcuni analisti, tra cui Abdulkahleq Abdullah, professore di scienze politiche emiratino, l’Egitto, gli Emirati e Israele, tre tra i più importanti alleati degli Stati Uniti nella regione, hanno voluto mandare un messaggio a Washington: “Sei con noi o con l'Iran? L'America starà con i suoi partner, o si schiererà con Teheran e favorirà un accordo ad ogni costo?”
La sera prima del vertice trilaterale il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price ha provato a rassicurare gli alleati affermando che nonostante i recenti progressi, "un accordo non è imminente né certo" e gli Stati Uniti si stanno “preparando per scenari con e senza un reciproco ritorno alla piena attuazione” dell'accordo, contraddicendo le valutazioni dell'intelligence israeliana secondo cui il negoziato sul nucleare può dirsi ormai giunto al termine.
Se da una parte gli americani vogliono al più presto chiudere l’accordo e continuare il loro ritiro dalla regione, Bennett sta cercando di creare un’alleanza di Stati che si oppongano non solo a Teheran ma anche ai movimenti finanziati e sostenuti dall'Iran, tra cui Hezbollah in Libano, gli houthi in Yemen e una serie di milizie sciite in Iraq.
Il vertice trilaterale si inserisce anche nel contesto più ampio di visite diplomatiche tra le monarchie del Golfo, sempre più legate a Israele dopo la firma degli accordi di Abramo ad agosto 2020, e gli altri Paesi arabi della regione. Alcuni esperti sostengono che i sauditi e gli emiratini stiano cercando di coinvolgere nel club anti-Iran anche la Siria e il Libano: nei giorni scorsi il presidente siriano Bashar al-Assad si è recato in visita negli Emirati, e il Libano potrebbe presto riallacciare i legami diplomatici con l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo dopo che l’anno scorso gli inviati di Beirut erano stati espulsi per un diverbio sulla crisi finanziaria libanese.