09/01/2024, 13.23
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Bendcowsky: nella guerra a Gaza la crisi e le divisioni di Israele

di Dario Salvi

Nel conflitto nella Striscia in gioco anche il futuro politico - e personale - del premier Netanyahu. Per questo da Washington temono un allargamento con Libano (e Iran). Per l’esperta impegnata in Israele nel dialogo tra ebrei e cristiani la realtà nel Paese è “complessa” e a fronte di una mobilitazione iniziale ora emergono le spaccature. Prioritario il ritorno degli ostaggi e parlare di pace “anche in giorni bui”. 

 

Milano (AsiaNews) - Nel caso in cui la guerra a Gaza “dovesse finire domani” la carriera politica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu “sarebbe alle battute conclusive”, per questo il suo interesse personale è, se possibile, di “allargarlo ulteriormente, il conflitto”. La riflessione, affidata al Washington Post (Wp) dietro garanzia di anonimato da un alto funzionario dell’amministrazione statunitense, spiega almeno in parte la progressiva escalation a Gaza che rischia di coinvolgere anche il Libano, con l’ingresso sul fronte nord di Hezbollah (e Iran). Il destino personale del capo dell’esecutivo - e le rivendicazioni della destra religiosa con lui al potere - si lega a doppio filo alle vicende che insanguinano la Terra Santa e che, secondo diversi esperti, rischiano di infiammare la regione. Tuttavia, il futuro resta incerto perché nell’ultimo periodo è emersa in tutta la sua portata la spaccatura interna all’esecutivo di emergenza nazionale, il “gabinetto di guerra” che guida le operazioni. Divisioni emerse con forza nell’acceso dibattito [per usare un eufemismo] sul futuro della Striscia post-conflitto con, da un lato, l’attuale premier e i ministri dell’ala radicale Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir; dall’altra i vertici militari (Idf, le forze armate israeliane) e il leader centrista Benny Gantz, entrato nel governo smarcandosi dall’altro leader dell’opposizione Yair Lapid. 

Una realtà “complessa”

Il panorama politico, istituzionale e sociale oggi è assai “complesso”. A sottolinearlo ad AsiaNews è Hana Bendcowsky, esperta nel dialogo interreligioso, responsabile dei programmi per il Jerusalem Center for Jewish-Christian Relations e figura di primo piano del Centro Rossing per l’educazione e il dialogo. “La realtà israeliana, oggi, è molto complessa” racconta l’esperta, che precisa di parlare “a titolo personale” e non a nome del Rossing Center. “Israele è in stato di guerra, gli israeliani - prosegue - sono ancora in lutto per l’uccisione di 1200 innocenti nel massacro del 7 ottobre, per la morte dei soldati, per le persone sequestrate e tuttora trattenute nella Striscia di Gaza da Hamas”. L’attacco dei miliziani, le violenze, i rapimenti hanno innescato quella che definisce una “crisi” profonda: “Quando si tratta di lutto e dolore - afferma - vi è un forte sentimento di unità e coesione, siamo tutti insieme” tanto che “centinaia di migliaia di riservisti sono stati reclutati in pochi giorni”. E persone “di diversa estrazione e con visioni politiche opposte hanno combattuto fianco a fianco”. 

Nelle prime fasi della risposta militare all’attacco di Hamas la “società civile” si è “mobilitata in modo straordinario per aiutare”, afferma la Bendcowsky. Dalla preparazione dei pasti ai soldati al volontariato nei campi a sostegno degli agricoltori che avevano perso i braccianti, dalle porte delle case aperte ad accogliere gli sfollati alla raccolta di vestiti e coperte: erano molti inizialmente i gesti di solidarietà, anche in modo spontaneo e non organizzato. “Si lavavano persino gli abiti delle persone che alloggiavano negli alberghi” prosegue, mentre “società, media e autorità” sottolineavano, plaudendo, a quel forte senso di “unità” che “per molti è un elemento reale”, un “mettersi alla prova in momenti di crisi come questo”.

Tuttavia, questo sentimento non è univoco ed è andato disperdendosi col passare delle settimane e le prime spaccature sulla condotta del conflitto, oltre al riemergere di divisioni interne alla leadership. “Per altri - precisa - questo senso di unità è insincero e non riflette la realtà. Vi sono molte critiche al governo, al cattivo funzionamento dell’autorità, al sistema politico, alla posizione dei membri del governo [in primis le vicende giudiziarie che riguardano Netanyahu, ndr]” più preoccupati delle questioni personali che della “cura dei cittadini, degli sfollati e soprattutto degli ostaggi”. A questo si aggiunge la “delusione” per la mancata assunzione di “responsabilità” dell’esecutivo che, al contrario, sembra aver giocato allo scaricabarile. Tutto questo, avverte, col passare del tempo ha reso “più evidenti” le “crepe”.

Il “nodo” degli ostaggi

Uno dei fattori che ha causato scontri non solo nel governo, ma nella stessa società israeliana è la questione degli ostaggi nelle mani di Hamas: per una componente non secondaria del Paese, a partire dai parenti, il loro ritorno a casa dovrebbe rappresentare una priorità. Ciononostante, una parte consistente dell’esecutivo - a partire dal primo ministro, pur a fronte di foto e incontri di rito con i familiari - resta marginale rispetto all’obiettivo primario di “eliminare” il movimento terrorista dalla Striscia, ritenendolo una minaccia per la sopravvivenza stessa della nazione. “Anche sul tema degli ostaggi, le opinioni - conferma Hana Bendcowsky - sono varie e complesse. Israele vuole la loro liberazione, ma la questione è se abbiamo tutti le stesse priorità e quale prezzo siamo disposti a pagare per la loro vita” e, in questo caso, “si possono trovare opinioni divergenti: dal rilascio immediato a tutti i costi, a un attacco militare anche a costo della vita stessa dei rapiti”. Le posizioni, spiega, sono anche “un riflesso della tensione tra una componente morale e una militare strategica”, espressione “della dicotomia tra preoccupazione per la vita di alcune persone nel presente rispetto a quella di molte nel futuro”. A livello personale, precisa, “non mi occupo di strategia militare e non appartengo alle famiglie dei rapiti. La mia posizione è morale ed etica: penso che qualsiasi prezzo e qualsiasi sforzo per la liberazione debba essere fatto, non oggi, non domani, ma già tre mesi fa” perché ogni loro giorno di prigionia “è la nostra rovina”.

Leader divisi, società divisa

Quella che emerge è una profonda frattura nel novero di una partita aperta da tempo per la leadership che ha registrato almeno cinque tornate elettorali in pochi anni, ulteriore conferma di una instabilità strutturale. Ciononostante, in questo quadro di profonda incertezza, Netanyahu ha saputo ritagliarsi di volta in volta alleanze diverse, fino all’attuale con la destra estrema e ultra-ortodossa, pur di restare al potere. “Non voglio esprimere giudizi sul governo e le diverse posizioni” prosegue l’esperta, “cerco di essere tollerante perché siamo ancora in mezzo al trauma, nel bel mezzo di una guerra” anche se prevale un atteggiamento “radicale ed estremo”. Si sta perdendo “la compassione per gli esseri umani” a discapito di un “linguaggio aggressivo” e di una contrapposizione “bianco o nero” che mostra “solo una parte” della realtà. “Questo vale ovviamente - precisa - per la società israeliana come per quasi tutti quelli che esprimono opinioni sulla situazione in Israele, compresa la comunità internazionale. In una tragedia di enorme portata come quella che sta insanguinando la Terra Santa “è difficile per le persone mantenere una posizione di complessità e guardare anche all’altra faccia” della medaglia.

Oggi è difficile, ma “voglio sperare che quando i combattimenti a Gaza cesseranno e si comincerà a parlare del ‘day-after’, un numero maggiore di israeliani e palestinesi capirà che non vi è altra soluzione che politica” e che si deve guardare alla “pace” anche se essa sarà “fredda e utilitaristica”. “È impossibile pensare che un evento come la guerra che si sta svolgendo con decine di migliaia di morti a Gaza e quasi due milioni di sfollati, rifugiati e barbari massacri come abbiamo visto il 7 ottobre, sia qualcosa che vogliamo vedere di nuovo in Israele, o che desideriamo che i nostri figli ne soffrano. È difficile - conclude - pensare alla pace, parlare di pace, ma deve restare salda la speranza di pace. Anche in giorni bui come quelli attuali”. 

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