Beirut, la speranza si rifiuta di morire. Storie da una città ferita
La moglie di Ali Msheik, aspetta da tre giorni notizie del marito, scaricatore di porto, davanti alle macerie della sua zona di lavoro. Eliane, artista, chiede a cristiani e musulmani una preghiera per suo figlio, dentista, in terapia intensiva. Giovani cristiani e musulmani puliscono le strade dai detriti e le chiese “luogo di Dio”. “La morte ci ha colpiti tutti senza discriminazione”. Nell’ospedale del Santo Rosario, a 300 metri dalle esplosioni, tutto è distrutto. Hanno salvato i pazienti e sperano di ricostruire l’ospedale. “Ora abbiamo bisogno di tutto; dobbiamo ricominciare da zero. Abbiamo bisogno di aiuto ed il governo non è in grado di aiutarci”.
Beirut (AsiaNews) – Per il terzo giorno, fra tonnellate di macerie, continuano le ricerche di possibili sopravvissuti alle terribili esplosioni di Beirut. Ali Msheik è uno fra i tanti scomparsi, forse intrappolati fra le rovine degli edifici crollati. I familiari non si danno pace e al porto aspettano che qualcuno estragga i loro cari vivi o morti. Ali Msheik aveva finito di lavorare, racconta la moglie, ma il suo datore di lavoro gli ha chiesto di tornare a lavorare come scaricatore di porto al silos di grano, per 3 mila lire all’ora (circa 40 centesimi di euro). Avendo due figli da nutrire, Ali non può permettersi il lusso di dire di no, in un Paese sull’orlo della fame, dove lavorare è diventato difficile e guadagnare qualche soldo quasi impossibile. Ali è tornato al porto alle 16.30. Alle 18.15 avvengono le due deflagrazioni, proprio dove stava lui.
Da allora non vi è nessuna notizia; non si sa se è vivo o morto, sepolto sotto tonnellate di detriti. La moglie continua a piangere. Non è più andata a casa e resta lì nelle vicinanze; spera e prega di riabbracciare suo marito vivo. Il passare delle ore non le fa perdere la speranza.
Eliane è un’artista libanese che ha dipinto i muri cupi dei quartieri poveri di Beirut per abbellirli e portarvi un po’ di gioia. Passa il tempo nella sala d’attesa dell’ospedale. Il suo unico figlio, un dentista che era al lavoro in clinica durante le esplosioni, si trova in terapia intensiva. Ha già subito un’operazione, ma le speranze sono poche: il suo corpo è lacerato dalle schegge dei vetri in frantumi, che sono penetrati nel profondo e hanno colpito organi vitali. In più, gli è crollato un pezzo di soffitto, schiacciandogli il petto. “Pregate per mio figlio” dice, “tutti, almeno per un minuto, musulmani o cristiani non importa, implorate Dio! Non mi resta che lui in questa vita. La casa è distrutta, e non importa. Ma mio figlio, vi prego…”. Eliane supplica chiunque vede, spera in chiunque. Nel lutto, nell’incertezza ed in piena solitudine la speranza è il sentimento che prevale.
Per esperienze decennali di guerre e distruzioni, la gente ormai sa che la vita è fatta anche di momenti difficili, ma bisogna essere tenaci, forti affrontando il male con il bene, la disperazione con la volontà di uscirne fuori, per rimettersi in piedi.
Nella chiesa di San Antonio di Padova, a Jemmeyze, a poche centinaia di metri dal porto le tegole sono volate via. Il cortile della chiesa, fino a ieri mattina pieno di detriti, è stato pulito e ha ritrovato un aspetto decente almeno l’ingresso. Il tutto grazie a una marea di giovani corsi in aiuto da ogni parte. All’esterno, ancora con le scope in mano, due donne musulmane velate. Una di loro commenta: “Questo è il luogo di Dio, è la casa di tutti. Per il Creatore siamo tutti uguali, la morte ci ha colpiti tutti senza discriminazione”.
All’ospedale del Santo Rosario di Wardiya, uno dei tre ospedali, insieme a quello di Gettawi ed all’ospedale San Giorgio, completamente inagibili ormai, due delle 10 suore che gestivano l’ospedale, stanno all’ingresso ormai senza porte. Spiegano a tutti com’è andata: tre suore ferite, un’infermiera morta. Le altre sette religiose rifiutano di lasciare l’ospedale, dormono su materassi per terra, sperano di rimettere a posto l’ospedale. Anche qui un esercito di ragazzi e ragazze venuti da ogni dove, sconosciuti e volenterosi, hanno pulito i 15 piani dell’ospedale da macerie, vetri, sangue, e continuano a riempire sacchi di detriti.
Suor Clotilde Agemian ci racconta con la mascherina al volto: “Siamo a 300 metri dal porto; le esplosioni sembravano qui dentro. Tutto è crollato: soffitto, vetri, porte che volavano in aria. Non so dove abbiamo trovato le forze, non so come siamo riusciti a rimanere calmi trasportando i pazienti - circa 300 - verso altri ospedali fuori da Beirut”.
Continua: “Ora l’ospedale non c’è più. Tutto è andato distrutto: materiali, letti, equipaggiamenti, infrastrutture. Lo stesso edificio riporta fessure gravi e rischia di crollare. Una nostra infermiera è morta sotto un muro che le è caduto addosso; gli ascensori erano fuori uso; gli altri infermieri hanno continuato a portare in salvo i pazienti a piedi, sulle spalle, lungo le scale. Era uno scenario da fronte di guerra”.
Alcuni pazienti già sofferenti sono stati colpiti con ferite sanguinanti. “L’assurdo – dice suor Clotilde - è che stavano in ospedale e non potevamo più soccorrerli, e abbiamo cercato di mandarli in qualche altro ospedale”.
“Dio ci è stato vicino – conclude - e ce l’abbiamo fatta. Ma adesso siamo in ginocchio. Preghiamo e speriamo. Ora abbiamo bisogno di tutto; dobbiamo ricominciare da zero. Abbiamo bisogno di aiuto ed il governo non è in grado di aiutarci”.
Sperare, ancora una volta sperare: il popolo libanese è erede dei fenici, e anche dell’Araba Fenice, che sorge dalle ceneri: non si arrende mai, ma oggi è un popolo che ha toccato il fondo.
A sostegno della popolazione di Beirut e del Libano, in appoggio alla Caritas Libano, AsiaNews ha deciso di lanciare la campagna "In aiuto a Beirut devastata". Coloro che vogliono contribuire possono inviare donazioni a:
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Causale: “AN04 – IN AIUTO A BEIRUT DEVASTATA”
- attraverso il sito di AsiaNews alla voce “DONA ORA”
11/08/2020 11:43
09/08/2020 14:16