18/03/2025, 18.55
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Bar-Tal: 'Non c'è partner: la narrativa della guerra senza fine'

di Giorgio Bernardelli

L'accademico israeliano, studioso dei "conflitti intrattabili", commenta ad AsiaNews la deriva del conflitto a Gaza e le sue conseguenze nella società israeliana: "Parlare di pace oggi è considerata una minaccia. I diciassettenni non sanno nemmeno che cosa sia la Linea Verde. Le famiglie degli ostaggi l'unica voce diversa".

Milano (AsiaNews) - “Da tempo in Israele non si pronuncia più la parola occupazione parlando della Palestina. Ora persino pace nell’opinione pubblica è diventato un termine sovversivo. Non si può più nemmeno ipotizzare che dall’altra parte ci sia qualcuno con cui farla”.

Parla con disincanto il prof. Daniel Bar-Tal. Professore emerito di psicologia politica all’Università di Tel Aviv, è in Italia in questi giorni per parlare del suo libro “La trappola dei conflitti intrattabili”, da poco pubblicato in italiano dall’editore Franco Angeli. Un saggio approfondito su quanto sia la costruzione di narrazioni esclusive, incapaci di mettersi nei panni degli altri, il principale ostacolo alla risoluzione dei conflitti. Primo tra tutti quello israelo-palestinese, che proprio questa mattina - dopo questi due mesi di fragile cessate il fuoco a Gaza – è di nuovo precipitato nell’orrore di bombardamenti, morti e macerie. E angoscia per le famiglie degli ostaggi israeliani che nonostante le dichiarazioni di facciata restano nella Striscia.

“Le narrazioni colorano la realtà – commenta il professor Bar-Tal -. Non importa se ciò che affermano sia vero oppure no: la gente agisce sulla base di ciò che pensa sia vero. Siamo legati agli incontri, alle storie che per noi costituiscono la realtà. E se le leadership ne hanno la forza, plasmano la realtà che diventa quella accettata dalla gente”.

Ma perché Israele e la Palestina non riescono a uscire dalla logica di un conflitto senza fine? “L’ethos del conflitto ha dominato Israele fin dagli anni di Ben Gurion - risponde l’accademico israeliano -. È stata la narrazione incontrastata fino agli anni Settanta, quando qualcosa è cominciato a cambiare: la società israeliana è diventata più aperta. Quando nel 1993 con Rabin si arrivò al riconoscimento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina c’era un 35% del Paese che sosteneva il processo di pace, un altro 35% era fermamente contrario e gli altri stavano nel mezzo. Ma tutto è cambiato con il 2000. Quando un uomo come Ehud Barak - un premier del partito laburista, eletto come uomo del fronte per la pace - per giustificare il fallimento del negoziato a Camp David, è tornato a quella narrativa dicendo: non c’è nessun partner che voglia la pace in Palestina. Il risultato è stato il muro non solo fisico, ma soprattutto psicologico. Oggi c’è un 65% di persone che in Israele non vuole guardare a chi sta dall’altra parte. Dimenticando che quello a cui assistiamo è un conflitto asimmetrico: Israele ha saldamente nelle sue mani tutte le leve dei rapporti di forza con i palestinesi”.

Proprio il professor Bar-Tal - giunto in Israele dalla Polonia a 11 anni, nel 1957, assieme alla madre, la cui intera famiglia era stata sterminata nel lager di Treblinka - è stato impegnato in prima persona nel tentativo di costruire una narrazione diversa. “Nel 1994 – racconta – l’allora ministro Arnon Rubinstein mi aveva chiamato a lavorare nel ministero dell’Educazione. Mi disse: devi cominciare a lavorare sull’educazione alla pace. Era una responsabilità enorme. Per anni tutti avevamo imparato che i palestinesi erano terroristi, nazisti. All’improvviso dovevamo presentare qualcosa di diverso. Ci siamo detti che dovevamo partire dai cambiamenti a breve termine, per poi arrivare anche a quelli che richiedono più tempo come riscrivere i libri di testo. Abbiamo iniziato a raccogliere storie che dimostravano la cooperazione tra arabi ed ebrei negli anni Venti e Trenta del XX secolo. Iniziammo a offrire informazioni sui palestinesi e la loro storia. Poi nel 1995 Rabin fu ucciso, l’anno dopo Netanyahu vinse le elezioni. Il nuovo ministro dell’Educazione mi disse: è finita, sei licenziato”.

Oggi nelle scuole il clima è completamente cambiato . “La mia nipotina entra all’asilo e la accoglie una mappa di Israele che va dal fiume al mare - racconta -. Non c’è bisogno neppure di un insegnante che glielo dica: quello è lo schema in cui i nostri ragazzi crescono. Ho condotto un’indagine sui diciassettenni delle high-school israeliane: non sanno che cosa sia la Linea Verde, per loro è assodato che Hebron o gli insediamenti della Samaria siano parte di Israele”.

Ma questa rimozione collettiva inquina Israele stesso: nel suo libro Bar-Tal cita la profezia del suo maestro Yeshayau Leibowitz, grande figura del pensiero ebraico, che con lucidità già nel novembre 1967 parlava del male che avrebbe fatto agli israeliani stessi la pretesa di assumere il controllo dei Territori abitati dai palestinesi. “L’occupazione penetra ogni giorno di più nello Stato di Israele, devi accettare la sua narrativa – commenta il prof. Bar-Tal -. Anche quando come oggi è solo una piccola minoranza a offrire una narrativa alternativa favorevole alla pace, questo atteggiamento è comunque qualcosa di inaccettabile per chi sta al potere. Israele ha bisogno di soldati, chi lavora per proporre altro va fermato. Così non è più ammesso che entri nelle scuole. Vengono approvate dal ministero della Giustizia leggi che limitano la libertà di espressione, la libertà di dimostrare. È un altro tipo di occupazione. Fino al paradosso di queste ore in cui persino il capo dello Shin-Bet, i servizi di sicurezza interni, da sempre in prima linea nella repressione dei palestinesi, è accusato di essere un traditore, semplicemente per aver osato aprire un’indagine sulle relazioni tra alcuni stretti collaboratori di Netanyahu e il Qatar”.

L’unico controcanto è offerto dal dolore delle famiglie degli ostaggi che restano a Gaza. “Sono la voce più importante - commenta Bar-Tal -. Un sondaggio di qualche giorno fa diceva che il 70% degli israeliani sostengono la loro causa, solo il 20% affermava che occorreva combattere prima Hamas. Ma Netanyahu non vuole che la guerra finisca. Vorrebbe allungare la prima fase del cessate il fuoco, senza entrare nella seconda, perché finché la guerra va avanti non dovrà assumersi le sue responsabilità. A differenza di quanto hanno fatto i vertici militari israeliani”.

Possono le famiglie degli ostaggi diventare l'inizio di un percorso diverso? “Subito dopo la guerra nel 1973 - risponde l'accademico di Tel Aviv - fu una persona sola a iniziare a dimostrare. Giorno e notte stava davanti alla sede del governo. Piano piano poi tanta gente si unì e nel 1977 chi aveva sempre governato perse le elezioni. Succederà ancora? Tra un anno e mezzo Israele andrà alle elezioni. Ma l’opposizione è composta da gruppi tra loro molto diversi: se anche nel novembre 2026 dovessero sconfiggere Netanyahu, non affronteranno comunque la questione palestinese. Soprattutto con Trump che permette a Israele di continuare a non farlo”.

Ma allora è impossibile uscire dalla trappola dei conflitti intrattabili? “È molto difficile - risponde Bar-Tal -. Guardate al Ruanda, allo Sri Lanka coi Tamil, alla Cecenia: sono tutti scontri risolti militarmente con una parte che è prevalsa sull’altra. Ma sono conflitti risolti davvero? E che Paesi sono diventati? L’altra strada è quella di chi prova a farsi carico anche dei problemi di chi sta dall’altra parte offrendo soluzioni. È successo in Spagna coi baschi, per esempio. Hanno rinunciato alla lotta armata, ma Madrid ha concesso praticamente tutto quello che chiedevano in termini di autonomia. È accaduto, ma è un fatto raro”.

 

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