Bangladesh: “Io, attivista cristiano per i diritti umani sequestrato e torturato”
di William Gomes
Alcuni uomini, forse dei servizi segreti militari, lo hanno minacciato e accusato di essere corrotto dai servizi pakistani e dall’opposizione, per gettare discredito sul governo e sull’esercito. William Gomes, un musulmano convertito, lavora per l’Asian Human Rights Commission e gestisce una sua organizzazione umanitaria, la Christian Development Alternative.
Dhaka (AsiaNews) – Il 21 maggio scorso degli uomini a bordo di una macchina scura hanno prelevato, sequestrato e torturato William Gomes, musulmano convertito al cristianesimo. L’uomo, membro dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc) e fondatore della Christian Development Alternative (Cda – un’organizzazione umanitaria), è stato denudato, costretto a terra e interrogato per quasi cinque ore. Questi uomini, tra cui uno di madrelingua inglese, lo accusavano di essere in contatto con i servizi segreti pakistani (Isi - Inter Service Intelligence) e di ricevere mazzette per “danneggiare l’esercito del Bangladesh”. Inoltre, Khaleda Zia lo avrebbe pagato per gettare discredito sul premier Sheikh Hasina. Minacciato di morte a lui e alla sua famiglia, Gomes ha giurato di lasciare l’Ahrc ed è stato rilasciato. L’uomo è certo che si tratti dei servizi segreti bengalesi. Di seguito riportiamo la sua testimonianza.
La mattina di sabato, era il 21 maggio, ero fuori per fare alcune commissioni di lavoro. Mi trovavo vicino alla stazione degli autobus di Sayedabad, di ritorno a casa, quando un uomo più alto e più grosso di me mi ha fermato chiedendomi di raggiungere insieme la sua macchina. Ricordo quando me l’ha indicata, era una Mitsubishi Pajero nera, con i vetri oscurati. L’ho seguito, pensavo si fosse perso o avesse bisogno del mio aiuto. Invece, appena giunto vicino all’auto ho visto una portiera aperta: prima ancora di rendermene conto, ho sentito l’uomo spingermi con la forza dentro la vettura, mentre un altro dall’interno mi tirava. I due si sono seduti accanto a me, si sono assicurati se fossi o meno William Gomes: dopo avergli risposto di sì, in un attimo mi sono ritrovato bendato con del nastro adesivo, un passamontagna e ammanettato con le mani dietro la schiena. Hanno preso borsa, cellulare, portafogli e ogni effetto personale. Mi hanno puntato due pistole alle tempie, hanno intimato di non fare rumore o mi avrebbero sparato. “Abbiamo già ricevuto ordine di ucciderti”, ha detto uno dei due. Poi, l’uomo che sedeva alla mia sinistra ha ordinato all’autista di andare “al quartier generale”. La macchina è partita, ho sentito un telefono squillare e uno dei rapitori ha risposto dicendo “Signore! Signore! L’abbiamo preso!”. La macchina è partita.
Dopo circa 40 minuti ci siamo fermati, in due mi hanno trascinato fuori dall’auto, minacciando di torturarmi se non avessi camminato da solo. Siamo saliti al 9° piano – ho sentito uno dire di premere il nove –, mi hanno gettato in una stanza e spogliato completamente. Ho sentito uno dire: “È circonciso, ma ha un nome cristiano”. Hanno iniziato a spingermi per terra, “come fanno i musulmani quando pregano”. Non capivo cosa volessero che io facessi. Poi, qualcuno ha sbattuto la mia testa contro il pavimento e mi ha minacciato: “Se provi ad alzarti, t’infileremo uova bollenti nel retto. E faremo lo stesso con i tuoi padri, quando li prenderemo”. I miei “padri”, come li hanno chiamati, sono quelli dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc). All’improvviso, l’uomo si è interrotto e ha iniziato a urlare concitato: “Signore! Signore! È pronto, il soggetto è pronto!”. Ma pronto per cosa?
Non sapevo cosa aspettarmi. Ero completamente nudo, avevo freddo, perdevo sangue dal naso. A un certo punto, questi uomini hanno iniziato a farmi molte domande: quand’era stata l’ultima volta in cui avevo lasciato il Bangladesh, se ero stato o meno a Hong Kong. Poi hanno messo in mezzo Khaleda Zia [leader dell’opposizione, ndr]. Le domande erano sempre più incalzanti: “ iniziato a chiedermi dei soldi: “Quando hai incontrato l’ultima volta Khaleda Zia? Dove sono i soldi? Dove sono i 10milioni di taka che ti hanno dato? Quanti soldi hai ricevuto da Zia per il caso di Mishu?”. Ma io Khaleda Zia non la conosco nemmeno. “Sono un liberale – ho provato a spiegargli – non ho rapporti con la gente di destra”.
La testa mi scoppiava. A un certo punto, mi hanno chiesto quando ero stato in Kashmir. Mi accusavano di avere incontrato agenti dell’Isi [Inter Service Intelligence, i servizi segreti pakistani, ndr] per distruggere il Bangladesh. “Non ho mai conosciuto nessuno dell’Isi – tentavo di dire – io sono un attivista per i diritti umani, lavoro soltanto per l’Ahrc”. Ma loro mi hanno risposto che l’Ahrc è “il più grande nemico del Paese e dell’esercito”. Il tuo capo dice di non volere l’esercito al governo? Come osa quel figlio di un cane a parlare contro l’esercito?”.
Le accuse andavano avanti. Secondo questi uomini, ero in contatto con i servizi pakistani, che insieme all’Asian Human Rights Commission mi davano mazzette per organizzare attentati e gettare discredito sull’esercito e sul premier. Ero sempre a terra. Ho sentito un cellulare squillare di nuovo, un uomo ha risposto dicendo che avevano quasi finito. Poi uno straniero, qualcuno di madrelingua inglese, mi ha chiesto informazioni sul mio “capo”, il presidente dell’Ahrc. Quando sarebbe rientrato in Bangladesh. Diverse volte hanno nominato il Rab [Rapid Action Battalion – un corpo speciale governativo, da molti considerato artefice di sparizioni e crimini su commissione, ndr]. Infatti, sono quasi certo che questi uomini facessero parte dell’ala “legale” della Rab, i servizi segreti dell’esercito.
Non sapevo cosa rispondergli. Avevo sete e così ho chiesto loro un po’ d’acqua. Ma ho bevuto qualcosa di caldo, dal sapore strano: credo mi abbiano drogato, o somministrato qualcosa di strano. Hanno iniziato a elencare una serie di episodi per i quali io sarei stato corrotto. Poi hanno messo in mezzo la Christian Development Alternative (Cda), la mia organizzazione umanitaria: “Cosa t’importa dei bengalesi rinchiusi nelle prigioni indiane? Perché cerchi di diffamare il buon operato del nostro governo, intrattenendo buoni rapporti con l’India?”. Ma tutto quello che ho fatto, attraverso la mia organizzazione, è stato scrivere delle lettere alle autorità competenti, per risolvere le controversie da un punto di vista umano.
A un certo punto lo straniero ha urlato: “È un terrorista. Uccidiamolo e diamolo in pasto ai magur machh [una specie di pesci che si nutre di carne umana, ndr]”. In quel momento, ho avuto davvero paura, ho iniziato a supplicarli di lasciarmi andare. Ero in lacrime, ho detto loro: “Vi prego, ho due figli piccoli, perdonatemi! Lascerò il mio lavoro!”. Ho promesso che non avrei più collaborato con l’Asian Human Rights Commission. Invece loro mi hanno minacciato di nuovo: “Tu non lascerai l’Ahrc. Adesso tornerai a casa, ti comporterai come se nulla fosse e non dirai a nessuno del nostro incontro”.
Di punto in bianco, è finito tutto. Mi hanno preso e rivestito. Ancora bendato e ammanettato sono salito su un’auto. Mi hanno riportato al luogo in cui mi avevano prelevato. Lo stesso uomo di quella mattina, dopo avermi restituito tutti i miei effetti personali, ha detto: “Ti teniamo d’occhio. Se apri la bocca, faremo in modo che tu venga divorato dai magur machh”. È scomparso nel nulla.
Io, invece, vivo ancora nella paura per me e per la mia famiglia.
La mattina di sabato, era il 21 maggio, ero fuori per fare alcune commissioni di lavoro. Mi trovavo vicino alla stazione degli autobus di Sayedabad, di ritorno a casa, quando un uomo più alto e più grosso di me mi ha fermato chiedendomi di raggiungere insieme la sua macchina. Ricordo quando me l’ha indicata, era una Mitsubishi Pajero nera, con i vetri oscurati. L’ho seguito, pensavo si fosse perso o avesse bisogno del mio aiuto. Invece, appena giunto vicino all’auto ho visto una portiera aperta: prima ancora di rendermene conto, ho sentito l’uomo spingermi con la forza dentro la vettura, mentre un altro dall’interno mi tirava. I due si sono seduti accanto a me, si sono assicurati se fossi o meno William Gomes: dopo avergli risposto di sì, in un attimo mi sono ritrovato bendato con del nastro adesivo, un passamontagna e ammanettato con le mani dietro la schiena. Hanno preso borsa, cellulare, portafogli e ogni effetto personale. Mi hanno puntato due pistole alle tempie, hanno intimato di non fare rumore o mi avrebbero sparato. “Abbiamo già ricevuto ordine di ucciderti”, ha detto uno dei due. Poi, l’uomo che sedeva alla mia sinistra ha ordinato all’autista di andare “al quartier generale”. La macchina è partita, ho sentito un telefono squillare e uno dei rapitori ha risposto dicendo “Signore! Signore! L’abbiamo preso!”. La macchina è partita.
Dopo circa 40 minuti ci siamo fermati, in due mi hanno trascinato fuori dall’auto, minacciando di torturarmi se non avessi camminato da solo. Siamo saliti al 9° piano – ho sentito uno dire di premere il nove –, mi hanno gettato in una stanza e spogliato completamente. Ho sentito uno dire: “È circonciso, ma ha un nome cristiano”. Hanno iniziato a spingermi per terra, “come fanno i musulmani quando pregano”. Non capivo cosa volessero che io facessi. Poi, qualcuno ha sbattuto la mia testa contro il pavimento e mi ha minacciato: “Se provi ad alzarti, t’infileremo uova bollenti nel retto. E faremo lo stesso con i tuoi padri, quando li prenderemo”. I miei “padri”, come li hanno chiamati, sono quelli dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc). All’improvviso, l’uomo si è interrotto e ha iniziato a urlare concitato: “Signore! Signore! È pronto, il soggetto è pronto!”. Ma pronto per cosa?
Non sapevo cosa aspettarmi. Ero completamente nudo, avevo freddo, perdevo sangue dal naso. A un certo punto, questi uomini hanno iniziato a farmi molte domande: quand’era stata l’ultima volta in cui avevo lasciato il Bangladesh, se ero stato o meno a Hong Kong. Poi hanno messo in mezzo Khaleda Zia [leader dell’opposizione, ndr]. Le domande erano sempre più incalzanti: “ iniziato a chiedermi dei soldi: “Quando hai incontrato l’ultima volta Khaleda Zia? Dove sono i soldi? Dove sono i 10milioni di taka che ti hanno dato? Quanti soldi hai ricevuto da Zia per il caso di Mishu?”. Ma io Khaleda Zia non la conosco nemmeno. “Sono un liberale – ho provato a spiegargli – non ho rapporti con la gente di destra”.
La testa mi scoppiava. A un certo punto, mi hanno chiesto quando ero stato in Kashmir. Mi accusavano di avere incontrato agenti dell’Isi [Inter Service Intelligence, i servizi segreti pakistani, ndr] per distruggere il Bangladesh. “Non ho mai conosciuto nessuno dell’Isi – tentavo di dire – io sono un attivista per i diritti umani, lavoro soltanto per l’Ahrc”. Ma loro mi hanno risposto che l’Ahrc è “il più grande nemico del Paese e dell’esercito”. Il tuo capo dice di non volere l’esercito al governo? Come osa quel figlio di un cane a parlare contro l’esercito?”.
Le accuse andavano avanti. Secondo questi uomini, ero in contatto con i servizi pakistani, che insieme all’Asian Human Rights Commission mi davano mazzette per organizzare attentati e gettare discredito sull’esercito e sul premier. Ero sempre a terra. Ho sentito un cellulare squillare di nuovo, un uomo ha risposto dicendo che avevano quasi finito. Poi uno straniero, qualcuno di madrelingua inglese, mi ha chiesto informazioni sul mio “capo”, il presidente dell’Ahrc. Quando sarebbe rientrato in Bangladesh. Diverse volte hanno nominato il Rab [Rapid Action Battalion – un corpo speciale governativo, da molti considerato artefice di sparizioni e crimini su commissione, ndr]. Infatti, sono quasi certo che questi uomini facessero parte dell’ala “legale” della Rab, i servizi segreti dell’esercito.
Non sapevo cosa rispondergli. Avevo sete e così ho chiesto loro un po’ d’acqua. Ma ho bevuto qualcosa di caldo, dal sapore strano: credo mi abbiano drogato, o somministrato qualcosa di strano. Hanno iniziato a elencare una serie di episodi per i quali io sarei stato corrotto. Poi hanno messo in mezzo la Christian Development Alternative (Cda), la mia organizzazione umanitaria: “Cosa t’importa dei bengalesi rinchiusi nelle prigioni indiane? Perché cerchi di diffamare il buon operato del nostro governo, intrattenendo buoni rapporti con l’India?”. Ma tutto quello che ho fatto, attraverso la mia organizzazione, è stato scrivere delle lettere alle autorità competenti, per risolvere le controversie da un punto di vista umano.
A un certo punto lo straniero ha urlato: “È un terrorista. Uccidiamolo e diamolo in pasto ai magur machh [una specie di pesci che si nutre di carne umana, ndr]”. In quel momento, ho avuto davvero paura, ho iniziato a supplicarli di lasciarmi andare. Ero in lacrime, ho detto loro: “Vi prego, ho due figli piccoli, perdonatemi! Lascerò il mio lavoro!”. Ho promesso che non avrei più collaborato con l’Asian Human Rights Commission. Invece loro mi hanno minacciato di nuovo: “Tu non lascerai l’Ahrc. Adesso tornerai a casa, ti comporterai come se nulla fosse e non dirai a nessuno del nostro incontro”.
Di punto in bianco, è finito tutto. Mi hanno preso e rivestito. Ancora bendato e ammanettato sono salito su un’auto. Mi hanno riportato al luogo in cui mi avevano prelevato. Lo stesso uomo di quella mattina, dopo avermi restituito tutti i miei effetti personali, ha detto: “Ti teniamo d’occhio. Se apri la bocca, faremo in modo che tu venga divorato dai magur machh”. È scomparso nel nulla.
Io, invece, vivo ancora nella paura per me e per la mia famiglia.
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