16/01/2025, 09.09
AZERBAIGIAN
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Baku ora rivendica l'eredità dei Safavidi

di Vladimir Rozanskij

Nell'era dei sovranismi l'Azerbaigian riscopre uno degli imperi più grandi e longevi del mondo musulmano per rivendicare le radici storiche della sua statualità ion contrapposizione con Teheran. Lo storcio Akhmedov: "Andrebbero studiate le riforme politiche ed economiche del suo fondatore Šakh Ismail Khataj". Le vicende antiche come chiave per leggere le battaglie di oggi della dinestia degli Aliev.

Baku (AsiaNews) - In questi tempi di riscoperta della propria identità sovrana dei popoli e delle nazioni, l’Azerbaigian intende proporsi come erede delle antiche dinastie come quella dei Safavidi, una stirpe di lingua e cultura turanica, originaria dei territori azeri nell’impero persiano che governarono la Persia tra il 1501 e il 1736, uno degli imperi più grandi e longevi del mondo musulmano, spesso considerato l’inizio dell’età moderna dell’Iran.

Sul sito statale di Zerkalo.az è stata pubblicata un’intervista su questo argomento allo studioso di storia e filosofia dell’università Khazar, Sabukhi Akhmedov, uno dei principali sostenitori della tesi dei Safavidi come “fenomeno della statualità azerbaigiana” che da secoli alimenta le polemiche tra Baku e Teheran. Egli parte da una citazione del poeta Abbas-Kuli-Aga Bakikhanov, che ancora nel 1841 scrisse parole di “grande attualità”: “Vivere nel presente senza guardare al passato è come andare nel deserto vagando senza meta”.

Akhmedov spiega che i Safavidi presero origine da unioni ancora più antiche di tribù turaniche sparse, che vivevano nell’attuale territorio dell’Azerbaigian e nelle regioni circostanti dell’Asia minore, proclamandosi poi come uno dei movimenti più importanti dell’islam, gli “sciiti di propria religione”, fino alla campagna di Šakh Ismail Khataj nel 1501, che seppe unire le diverse stirpi con un’energia tale “da essere paragonato ad Alessandro il Macedone”.

Nell’epoca post-mongolica, spiega il professore, i Safavidi “seppero tenere il meglio della dominazione tataro-mongola”, come le relazioni finanziarie ed economiche, quelle militari, ma anche culturali ed etiche, “trasformando con successo il sistema di amministrazione mongolica in un proprio Stato”. I vari gruppi di azeri si radunarono intorno a un centro forte di governo, anche se in seguito le divisioni fecero perdere questo “senso dello Stato” che oggi va recuperato, ricordando le tante vittorie dei Safavidi, e non le poche sconfitte.

Nell’esaltazione dell’impero, si paragonano i Safavidi agli Ottomani, che pure radunarono sotto di sé tanti popoli dopo la fine del Khanato dei mongoli. Akhmedov osserva che gli azeri ricordano Šakh Ismail “soltanto come un poeta e un letterato”, mentre vanno studiate le sue grandi riforme politiche ed economiche, oltre alle campagne militari, la prima delle quali avvenne “quando aveva solo 14 anni, sconfiggendo lo Stato di Ak Kojunlo”, che si estendeva nell’Anatolia orientale e in Armenia. In questo modo le storie antiche illuminano le battaglie moderne dell’Azerbaigian della dinastia degli Aliev, Heydar e Ilham, che hanno guidato il Paese in questi anni post-sovietici come i “nuovi Safavidi”.

Ismail fu un “sovrano illuminato” più di tutti i suoi contemporanei, che invece di sterminare i nemici, li prese tutti al suo servizio valorizzando le loro capacità nel nuovo regno unitario, ciò che non era tipico di quei tempi, “era quasi rivoluzionario, mostrando un talento speciale di ideologo e statista”. Unendo anche le varie tribù nomadi e semi-nomadi turaniche, seppe dimostrare che il progresso “non è una prerogativa soltanto dei popoli stanziali”, e uno sceicco musulmano del XVII secolo può apparire “più moderno di tanti governanti di oggi”.

La conclusione di Akhmedov è che “non ci dobbiamo lamentare se un conglomerato di repubbliche come l’Urss è durato solo 70 anni, ma dobbiamo riprendere le tradizioni di uno Stato costruito da un giovane azero che è durato oltre due secoli”. Ismail creò anche una grande biblioteca nella capitale, insieme al “divano dei poeti di Tebriz” a cui egli stesso partecipava, in quanto era cosciente che “un vero Stato non può esistere senza una propria cultura”, e oggi “abbiamo bisogno di musei e biblioteche che illuminino la nostra storia, quella dei Safavidi o dell’Albania caucasica e tanti altri periodi e tappe della nostra statualità, che i nostri avversari sostengono esista soltanto da un secolo… A volte da noi gli studiosi sono come uomini che tastano nel buio il corpo dell’elefante, senza rendersi conto della sua grandezza”.

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