Attivista indiano: Nuove speranze di giustizia per i cristiani dell’Orissa
di Nirmala Carvalho
In un’intervista ad AsiaNews, Ram Puniyani, organizzatore del National People’s Tribunal (Npt), spiega il valore del rapporto sui pogrom anticristiani in Orissa pubblicato dal Npt. Secondo il docente in pensione, alla base delle violenze del 2008 non c’è un problema religioso, ma lo sfruttamente da parte dei fondamentalisti indù della miseria di adivasi (indù) e dalit (cristiani).
New Delhi (AsiaNews) – Alla radice dei pogrom anticristiani di Kandhamal “non ci sono le conversioni, ma la povertà. Le forze fondamentaliste indù hanno sfruttato la miseria degli adivasi indù per fomentarli contro i dalit cristiani”. Lo afferma Ram Puniyani, presidente nel National People’s Tribunal (Npt), in un’intervista ad AsiaNews. Il Npt ha pubblicato un rapporto sulle violenze dell’Orissa nel 2008, con l’obiettivo di assistere le vittime dei pogrom e spingere lo Stato a fare giustizia. Puniyani crede che il documento del Npt farà pressione sul governo perché le vittime non vengano dimenticate. Ex professore di Ingegneria biomedica presso il prestigioso Istituto indiano di Tecnologia a Mumbai, Ram Puniyani è vincitore di numerosi premi, tra cui il National Communal Harmony e l’Indira Gandhi Award for National Integration. Di seguito, l’intervista che egli ha rilasciato ad AsiaNews.
Dr. Puniyani, quali erano i sentimenti delle persone alla presentazione del rapporto?
Le aspettative dei presenti erano molto alte. Nel presentare il documento, ho avvertito tra il pubblico un senso di sollievo, perché la loro voce è stata ascoltata. Poi, ho visto la loro speranza sulla ripresa dei processi di giustizia e riabilitazione che aspettavano da tempo.
Tra le testimonianze delle vittime, qual è stata la più dolorosa?
Il dolore più grande era quello di chi viveva in pace, persone innocenti ed estranee a quell’atmosfera di odio creata da alcune forze. La loro sofferenza era una sorta di ostracismo sociale, un modo per spingerli a riconvertirsi all’induismo. All’improvviso, le loro vite hanno subito un dissesto e una disgregazione totali.
Cosa rappresenterà la giustizia per le vittime del Kandhamal?
La giustizia per le vittime di Kandhamal rappresenterà la fine di un processo, in cui Stato e società torneranno a dedicarsi alle vittime dopo averle a lungo trascurate. Negli ultimi 50-55 anni le vittime di violenza non sono mai state ricompensate e riabilitate, né hanno avuto la possibilità di vivere con dignità. Se partiamo da qui, questo processo sarà il simbolo di un ritorno allo stato di diritto, alla civiltà e all’umanità. Una società non può rivendicare il proprio progresso finché queste ferite continuano a sanguinare. È un’enorme violazione dei diritti umani, della dignità di base e di tutti i valori difesi dalla nostra Costituzione. Se non si compie il processo di giustizia e se le minoranze non si sentono al sicuro nella società, allora lo sviluppo e la democrazia saranno incompleti.
È vero che ciò che ha scatenato le violenze sono state le conversioni?
No, la causa delle violenze non sono state le conversioni. Tempo prima, quando il pastore Graham Steins è stato bruciato vivo, la commissione Wadhwa ha stabilito con chiarezza che egli non era coinvolto in attività di conversione, e nella zona dove lavorava la percentuale di cristiani non cresceva. In Kandhamal le accuse di conversione sono una forma di propaganda: il Vhp (Vishwa Hindu Parishad, movimento ultranazionalista indù) ha cercato di giocare con i dalit cristiani e gli indù adivasi. Queste conversioni sono frutto di processi lenti, minuscoli, che in un secolo non hanno nemmeno creato una fascia sociale. Non sono un fenomeno recente. Le percentuali di cristiani in India non sono molto alte, a poco a poco negli ultimi 40 anni sono diminuite. In poche zone alcune persone si sono convertite al cristianesimo. In Kandhamal le conversioni sono state scelte come causa scatenante, ma il problema alla base era l’assoluta povertà degli adivasi indù, la miseria dei dalit cristiani e il comportamento di Lakmi Narayan, leader Vhp, che con i suoi sostenitori ha fomentato gli adivasi contro i dalit.
Dr. Puniyani, crede davvero che questo rapporto aiuterà a ottenere giustizia per il Kandhamal?
Se guardo agli ultimi 30 anni, mi sento senza speranza. In tutto questo tempo, è cresciuta una politica settaria e per questo vi è una crescente sfiducia anche tra gli attivisti. Ma se alziamo la voce, c’è davvero una possibilità di coinvolgere lo Stato su questa questione. Se il movimento di protesta contro queste forze si focalizza bene, possiamo essere certi che le autorità saranno costrette a fare qualcosa. Da tempo rapporti simili sono stati solo esercizi accademici: adesso, gli attivisti sono consapevoli che diffondere un documento non è sufficiente. Invece, bisogna agire per assicurarsi che le forze sociali continuino a fare pressione su governo, Stato e società, per dare giustizia alle vittime. Le possibilità di vincere sono al 50%, ma più facciamo pressione, più le possibilità crescono.
Dr. Puniyani, quali erano i sentimenti delle persone alla presentazione del rapporto?
Le aspettative dei presenti erano molto alte. Nel presentare il documento, ho avvertito tra il pubblico un senso di sollievo, perché la loro voce è stata ascoltata. Poi, ho visto la loro speranza sulla ripresa dei processi di giustizia e riabilitazione che aspettavano da tempo.
Tra le testimonianze delle vittime, qual è stata la più dolorosa?
Il dolore più grande era quello di chi viveva in pace, persone innocenti ed estranee a quell’atmosfera di odio creata da alcune forze. La loro sofferenza era una sorta di ostracismo sociale, un modo per spingerli a riconvertirsi all’induismo. All’improvviso, le loro vite hanno subito un dissesto e una disgregazione totali.
Cosa rappresenterà la giustizia per le vittime del Kandhamal?
La giustizia per le vittime di Kandhamal rappresenterà la fine di un processo, in cui Stato e società torneranno a dedicarsi alle vittime dopo averle a lungo trascurate. Negli ultimi 50-55 anni le vittime di violenza non sono mai state ricompensate e riabilitate, né hanno avuto la possibilità di vivere con dignità. Se partiamo da qui, questo processo sarà il simbolo di un ritorno allo stato di diritto, alla civiltà e all’umanità. Una società non può rivendicare il proprio progresso finché queste ferite continuano a sanguinare. È un’enorme violazione dei diritti umani, della dignità di base e di tutti i valori difesi dalla nostra Costituzione. Se non si compie il processo di giustizia e se le minoranze non si sentono al sicuro nella società, allora lo sviluppo e la democrazia saranno incompleti.
È vero che ciò che ha scatenato le violenze sono state le conversioni?
No, la causa delle violenze non sono state le conversioni. Tempo prima, quando il pastore Graham Steins è stato bruciato vivo, la commissione Wadhwa ha stabilito con chiarezza che egli non era coinvolto in attività di conversione, e nella zona dove lavorava la percentuale di cristiani non cresceva. In Kandhamal le accuse di conversione sono una forma di propaganda: il Vhp (Vishwa Hindu Parishad, movimento ultranazionalista indù) ha cercato di giocare con i dalit cristiani e gli indù adivasi. Queste conversioni sono frutto di processi lenti, minuscoli, che in un secolo non hanno nemmeno creato una fascia sociale. Non sono un fenomeno recente. Le percentuali di cristiani in India non sono molto alte, a poco a poco negli ultimi 40 anni sono diminuite. In poche zone alcune persone si sono convertite al cristianesimo. In Kandhamal le conversioni sono state scelte come causa scatenante, ma il problema alla base era l’assoluta povertà degli adivasi indù, la miseria dei dalit cristiani e il comportamento di Lakmi Narayan, leader Vhp, che con i suoi sostenitori ha fomentato gli adivasi contro i dalit.
Dr. Puniyani, crede davvero che questo rapporto aiuterà a ottenere giustizia per il Kandhamal?
Se guardo agli ultimi 30 anni, mi sento senza speranza. In tutto questo tempo, è cresciuta una politica settaria e per questo vi è una crescente sfiducia anche tra gli attivisti. Ma se alziamo la voce, c’è davvero una possibilità di coinvolgere lo Stato su questa questione. Se il movimento di protesta contro queste forze si focalizza bene, possiamo essere certi che le autorità saranno costrette a fare qualcosa. Da tempo rapporti simili sono stati solo esercizi accademici: adesso, gli attivisti sono consapevoli che diffondere un documento non è sufficiente. Invece, bisogna agire per assicurarsi che le forze sociali continuino a fare pressione su governo, Stato e società, per dare giustizia alle vittime. Le possibilità di vincere sono al 50%, ma più facciamo pressione, più le possibilità crescono.
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