Attivista cattolico: Stato federale e libertà religiosa per lo sviluppo democratico del Myanmar
Roma (AsiaNews) - Il dramma Rohingya, che da problema locale si è trasformato in emergenza regionale; il viaggio di Aung San Suu Kyi in Cina alla ricerca di una piena legittimità politica e per rilanciare i rapporti fra Pechino e l’opposizione democratica birmana, mai amata dai cinesi; e ancora, la deriva estremista e nazionalista di una frangia del buddismo, cui si contrappone l’opera della Chiesa cattolica locale in favore della pace e della riconciliazione, partendo proprio dalle aree abitate dalle minoranze etniche e teatro di conflitti decennali. Sono molti i temi offerti in queste settimane dal Myanmar, nazione retta per decenni da una ferrea dittatura militare che, a fine anno, si avvia alle elezioni legislative. Le seconde nella storia del Paese, che vedranno però - a differenza del 2011 - la partecipazione a pieno titolo del principale movimento pro-democrazia.
Per approfondire questi temi AsiaNews ha intervistato Benedict Rogers, giornalista e attivista per i diritti umani originario di Londra; egli è team leader per l'East Asia di Christian Solidarity Worldwide (Csw), ed è un grande esperto di Myanmar Paese in cui, nel 2013, ha fatto il suo ingresso nella Chiesa cattolica nella cattedrale di Yangon. Egli ha compiuto oltre 50 viaggi in questi anni nella nazione asiatica, visitando Yangon, Mandalay, Naypyidaw e le zone abitate dalle minoranze Kachin, Chin e Shan. L’attivista ha da poco concluso una nuova missione nella ex Birmania e ha voluto condividere con noi le impressioni raccolte nell’ultimo viaggio.
Ecco, di seguito, l’intervista rilasciata da Benedict Rogers ad AsiaNews:
In Myanmar è riesploso il dramma Rohingya, che da problema interno è diventato questione regionale. Vi è un parallelo fra l’emergenza profughi in Asia e le vicende del Mediterraneo?
È straordinaria questa concomitanza di eventi! Stiamo assistendo a una crisi umanitaria enorme, flussi di profughi in Europa e in Asia, che abbandonano le proprie terre a bordo di imbarcazioni di fortuna. Vi sono delle forti analogie fra le due situazioni, ivi compresa la riluttanza di diverse nazioni in entrambe le regioni a farsi carico dell’emergenza e contribuire nell’opera di assistenza e aiuto. Per quanto concerne la situazione vissuta oggi in Birmania, le radici profonde della crisi affondano nella drammatica persecuzione cui sono vittime i Rohingya, ai quali hanno tolto la possibilità di vedersi riconoscere la cittadinanza e non possono godere nemmeno dei diritti umani di base. Costretti a vivere in pessime condizioni all’interno di campi profughi, con poca o nessuna assistenza umanitaria, essi sono anche vittime di una campagna di odio che li priva di ogni umanità.
Il governo di Naypyidaw, come afferma qualcuno, è il principale imputato di questa emergenza?
Il governo birmano ha, come è ovvio, tutta una serie di responsabilità, che vanno però di pari passo con alcuni elementi all’interno della società [civile e religiosa] che sono anch’essi parte e corresponsabili dell’emergenza. Se il governo birmano facesse dei passi concreti per riconoscere il diritto di cittadinanza ai Rohingya, avviando un processo di riconciliazione tra Rohingya e Rakhine, se contrastasse in modo serio i discorsi di odio e proteggesse i diritti umani di base dei Rohingya, potrebbe apporre un serio tassello sulla lunga strada che porterà alla risoluzione della crisi.
In tema di società civile e religioni, si può affermare che vi sia una deriva estremista in certi ambienti del buddismo birmano?
Non si può negare che vi sia un serio problema di estremismo in seno al buddismo birmano, anche se dovremmo parlare - per chiarezza - di buddismo di matrice nazionalista. Si tratta, come ovvio, di una deriva perversa del buddismo stesso, il quale è invece una religione che insegna l’amore, la compassione, la pace e la non-violenza. Sfortunatamente, vi è in Birmania - e in Sri Lanka - un movimento che ne ha distorto i principi, trasformandoli in un nazionalismo politicizzato di matrice religiosa che confonde la religione con la razza e l’identità. Si tratta di un movimento che cerca di imporre il proprio nazionalismo estremista a carattere confessionale attraverso la violenza, la discriminazione e la legge. Esso mira a colpire e opprimere prima di tutto i musulmani, ma investe anche gli stessi buddisti che cercano di contrastarlo [esemplare la vicenda dell’ex leader della Nld Htin Lin Oo, buddista, condannato a due anni di prigione per insulto alla religione, ndr] e, in linea teorica, anche i cristiani e le altre minoranze non buddiste.
Oltre al nazionalismo religioso, vi è ancora il fronte aperto con le minoranze etniche (Kachin, Chin, Kokang). Possiamo davvero credere al tentativo di dialogo avviato dal governo?
Se dobbiamo basare il nostro giudizio sulla fiducia, è chiaro che decenni di guerra e di promesse disattese, unite a una oppressione brutale, hanno eroso la fiducia nell’esecutivo e nell’esercito. Anche ora, sembra che il governo e l’esercito vogliano la pace solo alle loro condizioni. Se questo è vero, non sarà certo possibile arrivare a una soluzione di pace. Tuttavia, si potrà giungere a un cessate il fuoco duraturo? Certo che sì, se il governo e l’esercito costruiscono un rapporto di vera fiducia con le minoranze etniche. Questo prevede anche il fatto che l’esercito osservi i termini del cessate il fuoco: ritirare le proprie truppe dalle aree appartenenti alle minoranze etniche; dare seguito a un dialogo per trovare una soluzione politica alla controversia.
Tuttavia, il primo e fondamentale punto è il ritiro delle truppe perché per decenni l’esercito del Myanmar ha compiuto diverse violazioni dei diritti umani sui civili appartenenti alle minoranze etniche, fra cui stupri e lavoro forzato; inoltre, i civili si sentono molto più vulnerabili se i militari rimangono a presidiare i loro villaggi. Il dialogo fra forze politiche deve portare alla nascita di una democrazia federale, nella quale le varie etnie nazionali possano godere di un certo grado di autonomia. E una genuina, duratura pace può essere raggiunta solo con un accordo di tipo politico.
In tema di politica, il recente viaggio di Aung San Suu Kyi [che oggi compie 70 anni, ndr] ha segnato la svolta definitiva nella vita della “Signora” birmana, da icona dei diritti a leader di un partito e, forse, di una nazione…
Ovviamente è importante per un partito come la Lega nazionale per la democrazia (Nld) stabilire un rapporto di tipo costruttivo con la Cina, soprattutto se la Nld vuole ricoprire un qualche potere di tipo politico in Birmania dopo le elezioni che si terranno verso fine anno. La Cina è un vicino troppo grande e troppo importante da ignorare, e sebbene abbia sempre sostenuto - in passato - i regimi militari che si sono alternati al potere e sebbene non sia un amico della democrazia, è di tutto interesse della Nld mitigare almeno gli effetti negativi della Cina instaurando con lei un rapporto. Parlando in tutta franchezza, ormai Aung San Suu Kyi è a tutti gli effetti un politico, come lei stessa ha voluto precisare, e ora la sua attenzione è tutta concentrata sulle prossime elezioni.
In questo quadro così complesso, che ruolo gioca la Chiesa cattolica in Myanmar?
La Chiesa cattolica birmana ricopre senza dubbio un ruolo importante e può contribuire all’opera di riconciliazione nazionale. Il cardinale Charles Maung Bo può essere forse considerato il più autorevole, coraggioso e schietto leader di livello nazionale in Myanmar, non solo fra le personalità religiose ma anche fra le figure pubbliche, per le sue prese di posizione in tema di diritti umani, libertà religiosa, armonia interconfessionale e pace con le minoranze etniche e per tutto il popolo birmano. Quando è stato eletto cardinale a inizio anno, molti buddisti e musulmani birmani si sono rivolti a lui come al “nostro Cardinale”. Grazie alla sua leadership, e al contributo della Chiesa nei campi dell’istruzione, della sanità e in altri ambiti del sociale, i cattolici godono di profondo rispetto in Myanmar e rivestono un ruolo fondamentale nella costruzione della nazione.
C'è un’immagine, un volto, un evento che hanno contraddistinto il suo ultimo viaggio in Myanmar?
Sebbene vi siano molti e gravi motivi di preoccupazione, è al tempo stesso fonte di incoraggiamento vedere il numero sempre crescente di membri della società civile e leader religiosi, fra cui monaci buddisti, che cercano di contrastare l’intolleranza e promuovere libertà religiosa e armonia interconfessionale. Il loro lavoro è difficoltoso e irto di sfide ma, al tempo stesso, essenziale. Vi è una fame reale e concreta di incontri, seminari e corsi di formazione riguardanti la libertà religiosa e l’armonia confessionale, e io stesso ho avuto il privilegio di essere coinvolto in molte di queste iniziative. Per questo credo sia importante rilanciare il pensiero di quei monaci buddisti che vogliono promuovere pace e armonia, contrastando l’odio e l’intolleranza. Nel febbraio di quest’anno ho organizzato un confronto fra personalità religiose del Myanmar e dell’Indonesia e, nel corso di una di queste visite a una scuola islamica del West Java (Indonesia), ho assistito a una scena molto commovente: un monaco buddista birmano e un leader religioso musulmano si sono stretti in un forte abbraccio. A questo gesto simbolico è seguito, più di recente, un altro fatto significativo: alla fine di un incontro a Mandalay, un monaco buddista birmano mi si è avvicinato e mi ha abbracciato in modo caloroso. Queste immagini dalla enorme carica simbolica rappresentano un grande segno di speranza per il futuro.
05/10/2017 12:38
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