Anatolia, due anni dal terremoto. Mons. Ilgit: ‘Criticità nella ricostruzione’
L’amministratore apostolico sottolinea le molte “difficoltà burocratiche” e procedure complicate dal “mancato riconoscimento giuridico” della Chiesa. Ad Antakya una fiaccolata alle 4 del mattino per ricordare la scossa principale. Il Chp attacca il governo: solo 30% della ricostruzione promessa è stata completata.
Milano (AsiaNews) - “Anziché due anni, sembra che siano passati soltanto due minuti”. La cattedrale a Iskenderun porta ancora i segni delle devastazioni “come tutte le chiese della città” e anche quelle “rimaste in piedi” come quella ortodossa, la siro-cattolica e la greco-cattolica sono “inagibili. Le difficoltà burocratiche sono tante, il mancato riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica rende ancora più difficili le procedure”. È quanto scrive in una riflessione inviata ad AsiaNews mons. Antuan Ilgit, amministratore apostolico del vicariato apostolico dell’Anatolia, a due anni dal devastante terremoto del 6 febbraio 2023 che ha colpito Turchia e Siria. “Tuttavia, la buona volontà c’è - aggiunge il prelato - e come unico vescovo latino turco ho ottime relazioni con l’amministrazione” e “ci impegniamo” in una prospettiva di ricostruzione.
Il sisma di magnitudo 7,7 resta una ferita aperta per la Turchia (e la vicina Siria) con una realtà di grave emergenza in decine di centri nel sud e nel sud-est, per quello che è considerato il peggior disastro naturale della storia moderna. In seguito alla scossa principale si sono verificate, nei tre mesi successivi, almeno 30mila di assestamento e la terra continua a tremare: il 27 gennaio a Malatya si è registrato un terremoto di magnitudo 5.1 che ha risvegliato paure e traumi mai sopiti.
Stime ufficiali riferiscono di un’area danneggiata pari alla Germania (circa 350mila km2) che ha coinvolto fino a 14 milioni di persone, il 16% circa della popolazione. Le vittime ufficiali sono 59.259 (e 8.476 in Siria) ma fonti locali riferiscono che il dato reale si aggira attorno ai 150mila e le proporzioni ben maggiori. Per gli esperti Onu sono 1,5 milioni le persone senza casa e una stima dei danni ammonta 148,8 miliardi di dollari, pari al 9% del Prodotti interno lordo (Pil) turco, con accuse e proteste verso il governo di “negligenza” negli aiuti e nella ricostruzione.
A due anni dal terremoto più letale e distruttivo della storia moderna della Turchia, centinaia di migliaia di persone restano sfollate e molte vivono ancora in alloggi temporanei, mentre gli sforzi di ricostruzione sono in ritardo rispetto agli obiettivi iniziali. L’Associazione delle vittime del terremoto di Hatay ha dichiarato in un rapporto che più di 400mila persone restano tuttora nei container, con servizi igienici scadenti, assistenza sanitaria inadeguata e un futuro incerto. Gli abitanti di Antakya, la città più colpita, si sono riuniti alle 4:17 del mattino di oggi (ora locale) con rami di alloro e torce per ricordare il momento esatto della devastante scossa, intonando slogan fra cui “Non si dimentica, non si perdona, non ci si riconcilia”.
Il governo si è impegnato a costruire 650mila case e il presidente Recep Tayyip Erdogan ha promesso nelle settimane successive alla scossa che 319mila abitazioni sarebbero state consegnate entro un anno. “Siamo fortunati ad aver consegnato 201.431 unità indipendenti ai loro legittimi proprietari a meno di due anni dal terremoto”, ha dichiarato il leader turco dopo una riunione di gabinetto il 3 febbraio scorso. Il ministro dell’Ambiente e urbanizzazione Murat Kurum ha aggiunto che sono stati spesi 75 miliardi di dollari per la ricostruzione nella regione più colpita.
Ciononostante, molti residenti versano ancora oggi in condizioni di fortuna, mentre altri hanno lasciato completamente le loro province d’origine, sconvolgendo le comunità e i mezzi di sussistenza. Ozgur Ozel, leader del principale partito di opposizione Chp, ha dichiarato che solo il 30% della ricostruzione promessa è stata completata. Il tasso di completamento degli alloggi nell’Hatay è stato solo del 18%. Inoltre, fonti locali denunciano repressioni e minacce della polizia che ha impedito una marcia della memoria (e protesta) in programma oggi.
“Sono passati due anni e nel corso di questi due anni i corpi sono stati sepolti” racconta mons. Ilgit, secondo cui molti altri ne mancano all’appello, fra cui “75 persone di cui 30 bambini e almeno 25 stranieri, soprattutto siriani”. Il prelato sottolinea come buona parte delle macerie “sono state portate vie creando grandi isole vuote qui a Iskenderun, ma soprattutto nella città di Antiochia”; nel frattempo “abbiamo sistemato l’aula magna dell’Istituto Patristico voluto da mons. Luigi Padovese, come una chiesetta”. A Iskenderun, assieme a focolarini e focolarine, si cerca di “tenere accesa la fiamma attraverso incontri” di giovani, donne, esercizi spirituali. “Se non curiamo e manteniamo insieme le pietre rimaste ‘vive’ sarà inutile - avverte - ricostruire gli edifici”. E riguardo all’anno santo indetto da papa Francesco per il 2025 “abbiamo stabilito la chiesetta di Antiochia, tenuta dai cappuccini, come Chiesa giubilare per dire al mondo - sottolinea - che manteniamo la speranza”.
Infine, l’amministratore apostolico sottolinea alcuni elementi di criticità nelle stesse istituzioni cristiane. “Purtroppo la Caritas Anatolia non funziona ancora a pieno regime” avverte. “I problemi sono tanti” fra cui “grandi progetti, operati e seguiti male. Questo mette in difficoltà la riorganizzazione in un momento critico". Di qui - insieme alla gratitudine verso i tanti benefattori in Italia - un rinnovato impegno della Chiesa dell'Anatolia affinché "i fondi arrivino davvero ai veri bisognosi”.