Allarme Jemaah Islamiyah: l’Indonesia non fa abbastanza contro il terrorismo
È l’avvertimento di un esperto in sicurezza statunitense: la JI sta diffondendo la sua influenza nella regione. Analisti cattolici spiegano i perché della crescita del fondamentalismo nel Paese e indicano le responsabilità dei leader religiosi.
Jakarta (AsiaNews) – L’Indonesia non fa abbastanza per fermare le attività terroristiche della Jemaah Islamiyah (JI). È l’avvertimento lanciato oggi da un esperto di sicurezza statunitense, Zachary Abuza, ospite di una conferenza a Sidney. Proprio l’Australia è uno dei Paesi che ha avuto più vittime negli attentati orchestrati dalla rete del terrorismo che imperversa nel sud-est asiatico con l’aiuto di al-Qaeda. Le bombe a Bali del 2002, firmate JI, fecero 202 morti in maggioranza australiani.
Il professor Abuza riconosce che Jakarta ha fatto molto per l’arresto di membri della formazione terrorista, ma ancora non ha preso in seria analisi il cambiamento subito dalla JI: da società segreta a gruppo mirante alla diffusione della sua influenza nella regione.
La JI ha tra le sue basi l’Indonesia e in particolare l’isola di Sualwesi. Qui predicatori e militanti reclutano i giovani terroristi, che si formano con istruttori addestrati in Afghanistan e nelle Filippine del sud. Il fenomeno è in aumento e ha radici profonde, come spiega un esperto delle relazioni interreligiose in Indonesia. Secondo p. Ignatius Ismartono, coordinatore del Servizio crisi e riconciliazione della Conferenza episcopale indonesiana, uno dei motivi principali è la “frustrazione che vivono le nuove generazioni”. “L’aumento della disoccupazione - ad esempio - è usato con facilità dagli estremisti per arruolare nelle loro fila giovani senza lavoro e prospettive. Dato che la legge ha fallito nell’arginare la corruzione - aggiunge il gesuita - i fondamentalisti chiedono che la loro religione diventi la vera legge del Paese”.
Per combattere contro la religione usato come strumento di violenza, in Indonesia i leader musulmani, cattolici, protestanti, indù, buddisti, come pure gli intellettuali hanno dato vita alla “Campagna per la moralità nazione”. “È il tentativo - dice p. Ismartono - di mandare il messaggio e fornire la testimonianza che l’escalation di violenze e attentati nella regione non è promossa dalle religioni, le quali piuttosto nutrono il desiderio sincero di collaborare alla pace”.
Ma non siamo ad un punto di non ritorno. “Per fortuna - conclude il gesuita - all’interno delle varie comunità religiose crescono anche i fedeli pronti a lavorare mano nella mano per il dialogo e contro il fanatismo. I conflitti che usano la bandiera della religione si fondano su uno scontro di fondamentalismi. Ora più che mai è imperativo che i leader religiosi comprendano le radici di questi conflitti nella speranza di non rendersi strumenti, più o meno consapevoli, di violenza”.
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