A 12 anni dal crollo del Rana Plaza i sopravvissuti aspettano ancora giustizia
Nella fabbrica di abbigliamento tessile morirono intrappolate più di 1.100 persone, soprattutto lavoratrici donne. Le ferite restano aperte a causa dei processi giuridici rallentati. Ma la Caritas Bangladesh con i propri programmi di sostegno riesce ad essere vicina a coloro che hanno perso i genitori o sono rimasti invalidi.
Dhaka (AsiaNews) – “Alcuni giorni urlo nel silenzio”, dice con voce tremante Sumi Akter. “Perché sono sopravvissuta? La morte sarebbe stata più gentile di questa infinita invalidità”. Aveva solo 15 anni quando, intrappolata per giorni sotto le macerie del Rana Plaza, Sumi fu estratta viva ma con la spina dorsale danneggiata. Da allora, costretta su una sedia a rotelle, ha dovuto rinunciare a ogni gesto di autonomia: “Cullare mio figlio, aiutare mio marito nelle faccende… sono tutte cose che non potrò mai fare”, racconta.
Le sue parole fanno eco alla disperazione di centinaia di sopravvissuti e famiglie delle vittime del crollo del Rana Plaza, un disastro che oggi, 24 aprile, ne segna il dodicesimo anniversario. Era il 2013 quando il palazzo di nove piani, costruito vicino alla stazione degli autobus di Savar, alle porte di Dhaka, crollò all’improvviso, uccidendo più di 1.134 persone e ferendone oltre 2.500, in gran parte lavoratrici dell’industria tessile. Tra queste c’era anche Shahda Begum, addetta alle pulizie della New Wave Bottoms Limited, madre del giovane Sujon Miah, che allora aveva appena nove anni.
“Mio padre mi ha insegnato ad aiutare i poveri. Devo questo sogno al sostegno della Caritas”, racconta oggi Sujon, che grazie a un programma specifico di sostegno ai figli rimasti senza genitori in seguito al crollo, ha potuto studiare e ora aspira a diventare avvocato. Caritas Bangladesh gli ha fornito uno stipendio mensile e un deposito fisso per sostenere la sua istruzione. Ma per molte famiglie, come per Sumi, il peso del trauma resta incancellabile: “La sopravvivenza – dice – ha avuto un costo molto più pesante della morte”.
Dal punto di vista giudiziario non si è ancora arrivati a una sentenza definitiva nonostante siano state presentate due cause: una per omicidio, l’altra per violazioni della legge sulla costruzione degli edifici. Eppure, nessuna delle due ha registrato progressi significativi. Il processo per omicidio, avviato nel 2013 contro 41 imputati – tra cui il proprietario dell’edificio, Sohel Rana – ha visto l’inizio delle testimonianze solo nel gennaio 2022. Tre degli imputati sono morti nel frattempo, e solo 83 dei 594 testimoni sono stati ascoltati. L’ultima udienza, il 21 aprile scorso, ha portato alla deposizione parziale di quattro testimoni e a un nuovo rinvio: il prossimo appuntamento in aula è previsto per il 28 aprile.
Il secondo caso, relativo al Building Construction Act, è fermo da novembre 2021 a causa di un’ordinanza dell’Alta Corte che ha sospeso il procedimento. Rana, attualmente in carcere, non potrà essere rilasciato fino alla conclusione di entrambi i procedimenti. Il suo avvocato, Faruk Ahmed, ha ribadito che il suo assistito è detenuto senza processo, pur sostenendo controversamente che l’edificio fosse formalmente intestato al padre defunto, Abdul Khalek.
Secondo i procuratori, i ritardi sono imputabili anche alle numerose azioni legali intentate dagli accusati per ostacolare il corso della giustizia. Il procuratore di Stato Bimal Samaddar ha riconosciuto gli sforzi in atto per accelerare il processo per omicidio, mentre il viceprocuratore Ishtiaq Hossain Jipu ha denunciato la precedente inattività dello Stato come una delle cause principali dello stallo.
“Se gli imputati fossero puniti in modo esemplare, i proprietari delle fabbriche darebbero la priorità alla sicurezza dei lavoratori”, ha commentato l’attivista Kalpana Akhter, che da anni si batte per i diritti dei lavoratori nel settore tessile. “La mancanza di volontà politica, soprattutto nei governi precedenti, è stata decisiva nel rallentare la giustizia”, ha aggiunto, sollecitando l’attuale amministrazione a intervenire con maggiore determinazione.
La tragedia ha messo in luce le carenze sistemiche all’interno dell’industria dell’abbigliamento del Bangladesh, dove corruzione e normative poco rigorose e spesso privilegiano il profitto rispetto alla sicurezza. Nonostante il governo e i marchi internazionali che si affidano alla manodopera del Bangladesh abbiano attuato una serie di riforme, il rallentamento dei procedimenti legali ha spesso provocato un certo scetticismo tra i sopravvissuti e le famiglie delle vittime.
“Stiamo cercando di portare testimoni chiave per sostenere le accuse”, ha dichiarato il procuratore capo Md. Iqbal Hossain. Alcuni, come Sujon e Sumi, sperano ancora che venga accertata la responsabilità del crollo.
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