Storia di Cecilia: da prigioniera di Marcos ad attivista contro il traffico umano
Cecilia Flores-Oebanda è stata lavoratrice minorenne ed è stata detenuta per quattro anni per essersi opposta al dittatore Ferdinando Marcos. In carcere ha cresciuto i propri figli. Nel 1991 ha fondato il Visayan Forum, che combatte il traffico umano nelle Filippine. AsiaNews l’ha intervistata alla vigilia del suo intervento a “Voci di fede”, simposio organizzato oggi in Vaticano, in occasione della Giornata mondiale della donna.
Roma (AsiaNews) – È stata sfruttata, incarcerata, ha subito tentativi di stupro e ha visto i suoi amici uccisi, ma l’incontro con la misericordia di Dio l’ha resa testimone della dignità della donna e una combattente instancabile del traffico umano. È la testimonianza di Cecilia Flores-Oebanda, cattolica filippina che ha dedicato la sua vita alla lotta contro il traffico umano nelle Filippine. AsiaNews l’ha intervistata alla vigilia del suo intervento a “Cosa vogliono le donne” Voci di Fede, festival di narrazioni al femminile, in programma oggi in Vaticano, nato grazie al Jesuit Refugee Center (Servizio dei gesuiti per i rifugiati) e ad altre organizzazioni.
Cecilia Flores-Oebanda nasce in una famiglia cattolica, molto povera, e inizia a lavorare da piccolissima “perché bisognava portare il cibo a casa”. Cresciuta durante gli anni turbolenti della legge marziale voluta dal dittatore Marcos – presidente delle Filippine dal 1965 al 1986 –, all’età di 13-14 anni diventa catechista: “In quegli anni – racconta – i militari hanno iniziato ad attaccare le parrocchie e i cattolici. Alcuni miei colleghi sono stati rapiti, la mia migliore amica è stata stuprata e uccisa. Costretta a fuggire e a nascondermi, sono diventata madre per la prima volta nelle montagne, mentre mi opponevo alla dittatura”.
Per proteggere il figlio, Cecilia lo affida ad alcuni parenti: “Io e mio marito siamo rimasti nelle montagne e dopo cinque anni siamo stati catturati dai militari. Io ero all’ottavo mese di gravidanza del mio secondogenito. Tre miei compagni sono stati uccisi di fronte a me. Ho pregato i soldati di risparmiare loro la vita, ma mi hanno risposto: ‘Siamo sotto la legge marziale, questo è un omicidio misericordioso!’”.
Condotta in prigione, prima dell’interrogatorio la donna subisce un tentativo di stupro: “Ero all’ottavo mese di gravidanza e mi sono ribellata. Mi sono detta: ‘Morirò oggi, sono pronta a combattere’. Per fortuna, non so perché, i militari mi hanno lasciato andare…forse perché hanno visto che ero combattiva. Negli anni seguenti ho partorito due figli in prigione. Potete immaginare come fosse avere una famiglia in quelle condizioni. Stavamo in una camera ricavata da una bagno, con dei letti di bambù”.
Durante la detenzione, durata quattro anni, Cecilia vive piena d’odio e di senso di colpa: “Chiedevo a Dio perché io fossi viva, nonostante tutto il mio male, mentre i miei amici erano morti. Però Dio è stato talmente buono con me che ha toccato la mia vita anche in prigione. Ho trovato la gratitudine nelle piccole cose che mi succedevano. Potevo gioire per il fatto di essere insieme alla mia famiglia, di poter prendermi cura dei miei figli”.
Nel 1986 il popolo filippino caccia il dittatore Marcos, e la famiglia di Cecilia è libera: “Anche in quel momento, però, non è stato facile: non sapevamo dove andare, non potevamo tornare nella nostra provincia [Visayas, parte centrale dell’arcipelago delle Filippine, ndr] perché era ancora sotto il controllo dei militari. Abbiamo deciso così di andare a Manila, insieme a mio fratello. Può sembrare buffo ma i miei figli ci hanno messo molto tempo ad abituarsi alla nuova libertà. Mio figlio, per esempio, non voleva andare a dormire finché non vedeva un soldato in uniforme che glielo ordinasse. Mio fratello doveva mettersi in uniforme per farlo dormire!”
Il Visayan Forum
Dopo aver cercato per anni un modo per servire gli altri, nel 1991 Cecilia decide di fondare il Visayan Forum: “La nostra missione è quella di vedere un giorno i filippini avere l’opportunità di lavorare senza correre il rischio di cadere nel traffico umano, nello sfruttamento e nelle schiavitù moderne[1]. Al momento abbiamo quattro programmi diversi per questo: per intercettare i trafficanti nei porti e negli aeroporti, per salvare le vittime prima che partano”.
Dopo 20 anni di attività, però, si accorge che le cose non stanno cambiando: “Il problema andava aumentando di dimensioni, così abbiamo iniziato un programma di prevenzione, che portiamo avanti insieme ad altri gruppi religiosi (la maggior parte cattolici e qualche musulmano). Andiamo nelle scuole per creare una controcultura, che insegni che le cose materiali non sono tutto e che la dignità è più importante della promessa di ricchezze. Questo movimento lo chiamiamo ‘iFight Movement’ e i membri sono gli ‘iFighters’”.
Al giorno d’oggi, spiega la donna, ci sono nuove forme di sfruttamento, come quella del sesso virtuale, dove bambini vengono abusati sulla rete: “Un altro grave problema riguarda i pescatori che vengono rapiti e sfruttati, gente che viene dalla Siria ed è tenuta in cattività sulle barche, popolazioni indigene forzate alla prostituzione, bambini che lavorano come domestici e non vengono pagati…è un business da miliardi di dollari e i trafficanti si evolvono in continuazione. Anche noi dobbiamo farlo”.
“Ho imparato a perdonare perché Dio ha avuto misericordia di me”
Cecilia racconta di come è riuscita a perdonare i propri aguzzini: “Credo che sia molto facile per me essere arrabbiata, dopo quello che ho passato. Alla fine, però, guardando a tutto quello che mi è accaduto, riconosco che Dio è stato buono con me. La gente spesso mi dice: ‘Come sei coraggiosa a fare quello che fai!’. Io credo che non potrei essere coraggiosa senza perdonare, e guardando indietro ho scoperto che la mia storia è la strada che Dio ha preparato per me. Non potrei essere misericordiosa se non sentissi la misericordia di Dio su di me”.
La sua preoccupazione è quella di “non essere definita dal mio dolore e dalla mia sofferenza. Non so se sarei capace di abbracciare i miei aguzzini se li incontrassi, ma so che non li giudicherei, perché non sta a me farlo, ma a Dio”.
Dopo tanti anni di lotte, racconta, “ho scoperto che non mi basta salvare le persone dal traffico umano e basta. Spesso mi chiedo: Ho portato queste persone più vicine a Cristo? Questo cambia tutta la prospettiva. Ovviamente non sono ancora capace di perdonare in modo perfetto, sono ancora in cammino”.
Segnali di speranza
Secondo Cecilia, la Chiesa filippina ha un grande ruolo nella lotta al traffico umano, “perché non si occupa solo dei più poveri ma anche dei più ricchi, che hanno molta influenza sulla cultura e sulla mentalità del Paese. Il Papa ha descritto il traffico umano come un crimine contro l’umanità. C’è bisogno che questi appelli vengano tradotti nella pratica”.
Per fortuna, i segnali positivi non mancano: “Ci sono molti esempi che dicono che qualcosa sta cambiando. Le Filippine hanno fatto qualche passo avanti nella lotta al traffico umano, nell’arresto e nella punizione dei colpevoli. Il problema però è lontano dall’essere risolto”.
“Sono molto contenta che il Vaticano abbia aperto le porte a donne come noi – dice riferendosi all’incontro di oggi –. Ho combattuto da cattolica tutta la vita e penso che la Chiesa abbia qualcosa da ascoltare da me. Spero che ci possa essere sempre più spazio in cui le donne possano esprimersi. La nostra lotta è stata il contributo al disegno più grande che è la missione della Chiesa”.
[1] Oltre al traffico umano verso l’estero (sono 10 milioni i filippini che lavorano in altri Paesi), è un fenomeno molto diffuso nelle Filippine lo sfruttamento dei minori, che copre molti settori, da quello domestico a quello minerario. Secondo uno studio condotto dall’Organizzazione ecumenica per l’educazione al lavoro e alla ricerca (Eiler), ci sono due bambini lavoratori ogni 10 famiglie nelle zone minerarie.
29/10/2016 09:12