10/10/2019, 11.23
VATICANO
Invia ad un amico

Sinodo Amazzonia: I preti sposati sono davvero una soluzione? (Prima parte)

di Martìn Lasarte

Per p. Martìn Lasarte, salesiano, l’idea dei “viri probati” rischia di essere una risposta affetta da clericalismo. Nella storia della Chiesa vi sono state evangelizzazioni fruttuose grazie ai laici battezzati, senza preti (Corea, Vietnam e oggi molte nazioni africane). Un contributo al dibattito che sta infiammando il Sinodo speciale sull’Amazzonia.

Città del Vaticano (AsiaNews) – La proposta di ordinare laici sposati (“viri probati”) per garantire l’eucaristia alle comunità cattoliche disperse nel bacino delle Amazzoni, continua ad essere proposta al Sinodo speciale che si sta celebrando in Vaticano. Oltre ad essere presente nell’Instrumentum Laboris, la proposta è emersa nella relazione del card. Hummes e nelle conferenze stampa di ogni giorno.

Come contributo al dibattito, presentiamo qui una riflessione di p. Martín Lasarte, salesiano uruguaiano, missionario in Africa, membro dell’équipe di animazione missionaria mondiale della Congregazione salesiana. In particolare, egli è responsabile dell’animazione missionaria in Africa e in America. P. Martin è stato scelto da papa Francesco per far parte dei padri sinodali.

In questo articolo – che presentiamo in due parti oggi e domani – p. Lasarte giudica come “clericalismo” in tentativo di ordinare dei laici sposati e cita i molti esempi di fruttuosa evangelizzazione da parte di laici avvenuti in Corea, Giappone, Africa. In più, p. Lasarte esprime il dubbio sul tipo di evangelizzazione finora riversata in Amazzonia, poco attenta a far crescere vocazioni locali.

Pubblichiamo qui ampi stralci di un articolo molto più voluminoso, offertoci dall’autore, dal titolo “A ordenação sacerdotal dos “viri probati” será a grande solução para a evangelização da Amazônia?”. L’articolo integrale è apparso in traduzione italiana su “Settimana News” del 12 agosto 2019.

 

Si dice che l’ordinazione sacerdotale di laici nelle comunità lontane è necessaria, perché il ministro difficilmente le può raggiungere. A mio modo di vedere, l’impostazione del problema in questi termini pecca di un enorme clericalismo. Sembra che dove non c’è il “pretino” o la “suorina” non ci sia vita ecclesiale. Il problema di fondo è molto più serio. Si è creata una Chiesa con poco o nessun protagonismo e senso di appartenenza dei laici, una Chiesa che, se non c’è il “prete”, non funziona. Questa è un’aberrazione ecclesiologica e pastorale. La nostra fede, in quanto cristiani, è radicata nel battesimo, non nell’ordinazione sacerdotale.

Talvolta ho l’impressione che si voglia clericalizzare il laicato. Occorre anzitutto una Chiesa di battezzati protagonisti, di discepoli e missionari. In varie parti della nostra America, si ha l’impressione che si sia sacramentalizzato ma non evangelizzato, che si sia mescolata l’acqua con l’aceto, ma non l’acqua col vino. Una visione “funzionale” del ministero, che non rivitalizzi l’intera comunità cristiana come protagonista dell’evangelizzazione, pur avendo dei laici ordinati, non risolverà il problema, l’impegno battesimale cristiano rimarrà lo stesso.

È opportuno allargare l’orizzonte e guardare la vita e l’esperienza della Chiesa. La Chiesa della Corea è nata dall’evangelizzazione dei laici. Il laico Yi Seung-hun, battezzato in Cina, diffonde la Chiesa cattolica nel paese, battezzando egli stesso. Per 51 anni dalla sua fondazione (1784-1835), la Chiesa coreana è stata evangelizzata dai laici, con la presenza occasionale di qualche sacerdote. Quella comunità cattolica fiorì e si diffuse enormemente, nonostante le terribili persecuzioni, grazie al protagonismo dei battezzati.

La Chiesa del Giappone, fondata da s. Francesco Saverio (1549), cresce vertiginosamente per tre secoli e sotto le persecuzioni; i missionari vengono espulsi e l’ultimo sacerdote viene martirizzato nel 1644. Solo dopo più di 200 anni torneranno i sacerdoti (missionari francesi) e troveranno ancora una Chiesa viva formata dai kakure kirishitan (cristiani nascosti). Nelle comunità cristiane c’erano vari ministeri: un responsabile, catechisti, battezzatori, predicatori. È interessante il criterio che i cristiani custodirono fino all’arrivo dei nuovi sacerdoti nel 19mo secolo: la Chiesa tornerà in Giappone e lo saprete da questi tre segni: «i sacerdoti saranno celibi, ci sarà una statua di Maria ed essi obbediranno al papa-sama di Roma».

Passo a qualcosa di più personale, alla mia esperienza missionaria di 25 anni in Africa (Angola). Una volta terminata la guerra civile nel 2002, ho potuto visitare comunità cristiane che, da 30 anni, non avevano avuto l’eucaristia, né visto un sacerdote, ma sono rimaste salde nella fede ed erano comunità dinamiche, guidate dal “catechista”, ministero fondamentale in Africa, e da altri ministri: evangelizzatori, animatori della preghiera, una pastorale con le donne, il servizio ai più poveri. Una Chiesa viva e laica in assenza di sacerdoti.

In America Latina non mancano esempi positivi, come tra i Quetchi del Guatemala centrale (Verapaz) dove, nonostante l’assenza di sacerdoti in alcune comunità, i ministri laici hanno comunità vive, ricche di ministeri, liturgie, itinerari catechistici, missioni, tra i quali i gruppi evangelici hanno potuto penetrare molto poco. Nonostante la scarsità di sacerdoti per tutte le comunità, è una Chiesa locale ricca di vocazioni sacerdotali indigene, dove sono state fondate persino congregazioni religiose femminili e maschili di origine totalmente locale.

Perché mancano vocazioni in Amazzonia

La mancanza di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa in Amazzonia è una sfida pastorale o è piuttosto la conseguenza di opzioni teologico-pastorali che non hanno dato i risultati previsti o risultati solo parziali? A mio parere, la proposta dei “viri probati” come soluzione all’evangelizzazione è una proposta illusoria, quasi magica, che non tocca il vero problema di fondo.

Papa Francesco scrive nell’Evangelii gaudium 107: “In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione”.

Il papa tocca qui la chiave del problema. Non è la mancanza di vocazioni, ma la scarsa proposta, la mancanza di fervore apostolico, la mancanza di fraternità e preghiera; la mancanza di processi seri e profondi di evangelizzazione.

Faccio un paragone con altri due “biomi” ricchi di vita biologica, spirituale ed ecclesiale: il bioma del fiume Brahmaputra e il bioma del bacino del Congo.

Nell’India nord-orientale, l’evangelizzazione avanza in modo decisivo dal 1923, ad opera di una piccola comunità cattolica che non raggiungeva i 1.000 cristiani. Secondo i dati del 2018, questa regione oggi consta di 1.647.765 cattolici, con 3.756 religiosi e 1.621 sacerdoti (metà dei quali appartenenti alle minoranze etniche locali e il resto missionari di altre parti dell’India). Ci sono 15 diocesi radicate nelle minoranze etniche con circa 220 lingue locali (Naga, Khasi, Wancho, Nocte, Jaintia, Apatani, Goro, Ahom, War, Bodo…). Queste popolazioni, come quelle amazzoniche, sono rimaste per secoli isolate dall’induismo, dall’islamismo e dal buddismo, rifugiate tra le montagne e le foreste dell’Himalaya, vivendo le loro pratiche ancestrali. In 90 anni è avvenuto un cambiamento impressionante. Il rapporto tra fedeli e sacerdoti cattolici oggi è di 1 a 1.000, il che è eccellente. Molti cristiani di queste minoranze “tribali” hanno occupato posti significativi nella politica locale e nazionale dell’India.

L’altro bioma è il fiume Congo, con i Paesi circostanti: oltre 500 popoli e lingue. Il cristianesimo ha attraversato varie difficoltà, le stesse di altri contesti, con in più la sfida di essere considerato come la religione del colonialismo durante il periodo della decolonizzazione (anni ’60 e ’70). Nonostante tutto, la fioritura delle Chiese africane è evidente e promettente. In quel bioma, le vocazioni sacerdotali sono cresciute del 32% negli ultimi 10 anni e la tendenza sembra continuare.

Potremmo portare altri esempi dal Vietnam, dall’Indonesia (il Paese più musulmano del mondo), da Timor Est, dall’Oceania… ma certamente non dalla nostra Europa secolarizzata. In tutte le regioni geografiche esistono sfide e difficoltà nelle comunità cristiane; ma si vede che dove esiste un’opera di evangelizzazione seria, autentica e continua, non mancano le vocazioni al sacerdozio.

L’inevitabile domanda che si pone è: come è possibile che popoli con tante ricchezze e somiglianze antropologiche-culturali con i popoli amazzonici, nei loro riti, miti, un forte senso comunitario, la comunione con il cosmo, con profonda apertura religiosa… abbiano fatto fiorire comunità cristiane e vocazioni sacerdotali mentre in alcune parti dell’Amazzonia, dopo 200, 400 anni c’è una sterilità ecclesiale e vocazionale? Ci sono diocesi e congregazioni presenti da oltre un secolo e che non hanno una sola vocazione indigena locale. C’è forse un gene in più o in meno, o il problema è un altro? Le differenze culturali sono così ampie?

Una possibile risposta è che i popoli amazzonici, culturalmente, non comprendono le esigenze del celibato. Questo problema è stato sollevato da tanti, forse anche con buona volontà, ma è impregnato di forti preconcetti culturali, per non dire razziali… Esattamente lo stesso problema si era posto in India, in Oceania e in Africa. L’enciclica Maximum illud, di cui si celebra il centenario durante il sinodo con un mese missionario straordinario, risponde a questo problema. Il documento incentiva e stimola la promozione delle vocazioni indigene, nelle Chiese che furono o erano dipendenti dalle colonie europee.

Qui possiamo vedere, a titolo di esempio, il magnifico lavoro missionario degli Spiritani, dei Padri Bianchi, che hanno optato decisamente per le vocazioni locali, creando seminari fiorenti in tutta l’Africa.

Certamente, dedicarsi a lavorare per le vocazioni è impegnativo, implica l’investimento di mezzi e del personale migliore. Talvolta la vita missionaria ha evitato questo prezioso servizio che in realtà è quello che coopererà a creare una Chiesa dal volto amazzonico. A volte è molto più gratificante una vita di “eroe itinerante” nelle foreste, piuttosto che una dedizione amorevole, paziente e rispettosa nell’accompagnamento e nella formazione delle vocazioni locali.

(Fine prima parte)

TAGs
Invia ad un amico
Visualizza per la stampa
CLOSE X
Vedi anche
Sinodo Amazzonia: I ‘viri probati’ non hanno la maggioranza nei Circoli minori
18/10/2019 15:45
Sinodo Amazzonia: I nuovi cammini e le malattie pastorali (Seconda parte)
11/10/2019 07:00
Dal Sinodo, un fiume di Vita per l’Amazzonia
28/10/2019 10:43
P. Lasarte, 10 ‘Mi piace’ e 9 ‘non mi piace’: una valutazione del Sinodo sull’Amazzonia
25/10/2019 15:58
Sinodo Amazzonia: chiesti ‘nuovi ministeri’ per i popoli amazzonici
09/10/2019 15:42


Iscriviti alle newsletter

Iscriviti alle newsletter di Asia News o modifica le tue preferenze

ISCRIVITI ORA
“L’Asia: ecco il nostro comune compito per il terzo millennio!” - Giovanni Paolo II, da “Alzatevi, andiamo”