Scioperi nelle fabbriche cinesi per chiedere più soldi ma soprattutto rispetto
A Guangzhou in una fabbrica sudcoreana, a Changan in un impianto giapponese: gli operai chiedono aumenti salariali, ma soprattutto rispetto e condizioni di lavoro umane. Si chiede anche di poter creare sindacati indipendenti dal Partito comunista.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Oltre 4mila operai scioperano da tre giorni nella fabbrica di borse della sudcoreana Simone Limited a Hualong nel villaggio di Meishan (distretto di Panyu nel Guangzhou), chiedendo aumenti dei salari e, soprattutto, rispetto e migliori condizioni di lavoro. Nel Paese sono frequenti le proteste dei lavoratori, contro un’organizzazione del lavoro inumana oltre che per avere salari decenti.
I lavoratori della fabbrica di Hualong chiedono aumenti di paga corrispondenti ai forti aumenti dei prezzi di generi di prima necessità, come gli alimenti. Ma protestano anche contro “un duro ambiente di lavoro”. C’è molta tensione, anche perché gli scioperanti denunciano che ieri le guardie private dell’azienda hanno pestato almeno due di loro, tra cui una donna. La polizia presidia in forza l’impianto ma non interviene, mentre la protesta blocca anche il traffico intorno alla fabbrica.
La fabbrica dal 1992 produce borse per le grandi firme, come Burberry, Michael Kors, DKNY, Kate Spade e Coach. I 4mila dipendenti, per l’80% donne in gran parte migranti dell’entroterra, protestano che lavorano 12 ore al giorno con possibilità soltanto di andare al bagno una volta ogni 4 ore, durante il lavoro non ci si può fermare nemmeno per bere. Il salario base è di 1.100 yuan mensili per 8 ore di lavoro, ma chi lavora per 12 ore ottiene 1.900 yuan. La ditta trattiene 200 yuan per gli oneri di sicurezza sociale e altri 100 yuan per la mensa interna, ma gli operai protestano che il cibo della mensa “è come spazzatura, il riso servito talvolta è nero”.
Ora i lavoratori chiedono un aumento della paga-base a 1.300 yuan. Ma più ancora chiedono di essere trattati “come esseri umani”, come dicono alcuni. Chiedono maggior rispetto dai dirigenti, che li rimproverano davanti a tutti per sciocchezze, “sequestrano” i telefoni cellulari, entrano persino “per controllare” nel bagno femminile.
Nel Paese stanno esplodendo parecchie proteste nelle fabbriche, spinte dalla richiesta di aumenti salariali, ma anche dal rifiuto di continuare a essere considerati privi di qualsiasi diritto.
La settimana scorsa circa 2mila operai di una fabbrica giapponese Citizen Watch Co. a Changan (Dongguan) hanno scioperato contro l’imposizione di 5-6 ore di straordinario obbligatorio senza corrispettivo salariale. La ditta applica anche sanzioni economiche contro chi non è al suo posto almeno 10 minuti prima dell’inizio del lavoro.
Il boom economico cinese è anche basato su decine di milioni di operai migranti che lavorano l’intero giorno per salari minimi e in condizioni inumane. Le imprese spesso sono protette dalle autorità locali, desiderose di favorire lo sviluppo industriale, e non sono tutelati dal sindacato unico cinese, organo del Partito comunista. In Cina scoppiano ogni anno decine di migliaia di proteste per il mancato pagamento dei salari e per le condizioni vessatorie di lavoro.
Di recente alcuni dissidenti cinesi, che si richiamano alla Rivoluzione dei gelsomini, hanno invitato gli operai di tutto il Paese a fare sciopero tra il 15 e il 25 giugno per chiedere migliori salari e condizioni di lavoro e il diritto di costituire sindacati indipendenti.
I lavoratori della fabbrica di Hualong chiedono aumenti di paga corrispondenti ai forti aumenti dei prezzi di generi di prima necessità, come gli alimenti. Ma protestano anche contro “un duro ambiente di lavoro”. C’è molta tensione, anche perché gli scioperanti denunciano che ieri le guardie private dell’azienda hanno pestato almeno due di loro, tra cui una donna. La polizia presidia in forza l’impianto ma non interviene, mentre la protesta blocca anche il traffico intorno alla fabbrica.
La fabbrica dal 1992 produce borse per le grandi firme, come Burberry, Michael Kors, DKNY, Kate Spade e Coach. I 4mila dipendenti, per l’80% donne in gran parte migranti dell’entroterra, protestano che lavorano 12 ore al giorno con possibilità soltanto di andare al bagno una volta ogni 4 ore, durante il lavoro non ci si può fermare nemmeno per bere. Il salario base è di 1.100 yuan mensili per 8 ore di lavoro, ma chi lavora per 12 ore ottiene 1.900 yuan. La ditta trattiene 200 yuan per gli oneri di sicurezza sociale e altri 100 yuan per la mensa interna, ma gli operai protestano che il cibo della mensa “è come spazzatura, il riso servito talvolta è nero”.
Ora i lavoratori chiedono un aumento della paga-base a 1.300 yuan. Ma più ancora chiedono di essere trattati “come esseri umani”, come dicono alcuni. Chiedono maggior rispetto dai dirigenti, che li rimproverano davanti a tutti per sciocchezze, “sequestrano” i telefoni cellulari, entrano persino “per controllare” nel bagno femminile.
Nel Paese stanno esplodendo parecchie proteste nelle fabbriche, spinte dalla richiesta di aumenti salariali, ma anche dal rifiuto di continuare a essere considerati privi di qualsiasi diritto.
La settimana scorsa circa 2mila operai di una fabbrica giapponese Citizen Watch Co. a Changan (Dongguan) hanno scioperato contro l’imposizione di 5-6 ore di straordinario obbligatorio senza corrispettivo salariale. La ditta applica anche sanzioni economiche contro chi non è al suo posto almeno 10 minuti prima dell’inizio del lavoro.
Il boom economico cinese è anche basato su decine di milioni di operai migranti che lavorano l’intero giorno per salari minimi e in condizioni inumane. Le imprese spesso sono protette dalle autorità locali, desiderose di favorire lo sviluppo industriale, e non sono tutelati dal sindacato unico cinese, organo del Partito comunista. In Cina scoppiano ogni anno decine di migliaia di proteste per il mancato pagamento dei salari e per le condizioni vessatorie di lavoro.
Di recente alcuni dissidenti cinesi, che si richiamano alla Rivoluzione dei gelsomini, hanno invitato gli operai di tutto il Paese a fare sciopero tra il 15 e il 25 giugno per chiedere migliori salari e condizioni di lavoro e il diritto di costituire sindacati indipendenti.
Vedi anche