09/04/2015, 00.00
CINA-S.E. ASIATICO
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Propaganda e atti di forza: la strategia di Pechino nel Mar cinese meridionale

di David Millar
Alcune immagini satellitari pubblicate oggi mostrano che la Cina sta reclamando terre all’interno della zona economica filippina del Mar cinese meridionale. Con l’aiuto di draghe e grazie alla costruzione di dighe, i cinesi stanno trasportando terra sopra alcune barriere coralline sommerse, creando isolotti artificiali. Oltre all’annosa rivendicazione delle Mischief Reefs (occupate dai cinesi nel ’95 e contese anche da Taiwan, Vietnam e Filippine), la Cina sta occupando illegalmente altre sei barriere coralline nell’arcipelago delle Spratlys. I lavori cinesi nelle barriere coralline sono iniziati a febbraio. Le immagini satellitari mostrano che le strisce di terra artificiali ospiteranno porti, stazioni di rifornimento navali e piste di atterraggio per aerei. Il Giappone teme per il riarmo cinese nella zona.

Pechino (AsiaNews) - A fronte di questi azioni intimidatorie, la propaganda di Pechino continua a predicare  soluzioni pacifiche e trattati bilaterali per dirimere i conflitti. Pubblichiamo di seguito il primo report di uno studio condotto dalla Bush School of Government and Public Service che ha avuto come oggetto le strategie politiche e di propaganda utilizzate dalla Cina per giustificare le proprie azioni, molto spesso nascondendo la realtà dei fatti.

La scorsa settimana, la Cina ha finito di ospitare l’edizione 2015 del Boao Forum e ha inoltre partecipato, insieme ai membri della Asean (Association of Southern Asian Nations), alla 13esima conferenza sulla “Realizzazione della dichiarazione di condotta delle parti nel Mar cinese meridionale”. Entrambi gli eventi sono stati elogiati dalla stampa cinese come i simboli dell’impegno della Cina nella regione e come l’inizio di un ordinamento economico e di sicurezza panasiatica, che assicuri la pace mentre garantisce alla Cina l’importanza che le è dovuta come “grande potenza” (Xinhua, 27 e 28 marzo). Il tema del Boao Forum di quest’anno, “Verso una comunità dal destino comune”, sembra fotografare perfettamente la visione che Pechino ha di un’Asia del 21mo secolo strettamente connessa con la leadership economica e politica cinese (Tung Fang Jih Pao, 29 marzo). Nondimeno, i continui conflitti nel Mar cinese meridionale, che vedono la Cina protagonista, sono una nota stonata in questa altrimenti armoniosa sinfonia. Negli Stati Uniti molti pensano che il coinvolgimento della Cina sia parte di una manovra militare e politica ben calibrata, un “crescente autoaffermazione” volto a distogliere l’attenzione degli USA e a convincere gli Stati vicini ad accettare il crescente del potere cinese (The Diplomat, 8 gennaio). Tuttavia, in Cina la “narrativa” ufficiale della stampa insiste nel descrivere ogni conflitto con i gli Stati vicini come causato dall’interferenza degli USA – in particolare con il “Rebalance Asia”, che incoraggia lo scontro diretto piuttosto che il negoziato e rivela la segreta intenzione di impedire l’ascesa cinese (China Daily, 1 aprile). Questa narrativa può certamente essere utilizzata per giustificare in modo cinico obiettivi pragmatici ma la sua risonante prevalenza nei mezzi d’informazione suggerisce che essa davvero cstringe l’opinione e stimoli l’azione, aumentando il rischio di incomprensioni e di valutazioni sbagliate della crisi. Per fornire sempre più precisione agli elementi delle “narrazioni” che modellano il discorso su questo conflitto, un team di ricercatori della Bush School of Government and Public Service ha iniziato ad esaminare il linguaggio specifico, le metafore e le immagini usate dalla Cina per descrivere queste dispute territoriali. Questo è il primo dei nostri report.

Che cos’è una “narrativa”?

Definiamo “narrativa” una storia usata da individui o gruppi per spiegare le loro contingenze e per giustificare una strategia o una linea d’azione. Le tipiche narrative strategiche fanno riferimento a un’esperienza storica condivisa e stabiliscono una logica causale che spieghi come affrontare sfide simili. Una volta interiorizzata, questa sceneggiatura cognitiva serve come “scorciatoia” per comprendere il conflitto, e perciò diventa un partner silenzioso nella creazione della strategia.  Le narrative si intrecciano alle dichiarazioni politiche pubbliche, ma sono spesso lasciate implicite perché considerate “senso comune”. Le narrative sono inoltre la chiave dell’identità di gruppo, e in particolar modo della costruzione di un’alleanza – soprattutto in Cina dove le decisioni importanti sono tradizionalmente prese col consenso dell’élite (China Leadership Monitor, 2008 e 2014).

Il nucleo della narrative del Partito comunista cinese (Pcc) – che solo il Partito ha salvato la Cina dalla sua “umiliazione nazionale”, e che esso solamente può portare al suo rinnovamento – è sopravvissuto a dure prove, ma necessita ancora di una infusione periodica di supporto per contrastare il sorgere della concorrenza. Questa infusione è condotta attraverso l’insegnamento della storia, propaganda, memoriali, rievocazioni storiche e, soprattutto, un conflitto politico-militare simbolico che rinvigorisca il senso di cospirazione e pericolo.

I cinesi non sono fruitori ingenui di queste storie, però il Pcc ha dimostrato che nelle aree chiave ha ancora il potere di modificare la narrativa e di aizzare la popolazione contro concezioni “non patriottiche” che minacciano i progetti del partito[1]. Questo è vero in particolare per i conflitti territoriali, dove – diversamente dai problemi interni come la corruzione, l’inquinamento e il costo della vita – la maggior parte dei cinesi apprendono le notizie (e le opinioni) dai report del governo piuttosto che per esperienza diretta.

Per identificare gli elementi della narrativa, il nostro team di ricerca ha osservato una varietà di fonti tra cui la stampa ufficiale, i quotidiani locali, i giornali e i siti dell’esercito, i tavoli di discussione, i giornali specializzati, le conferenze, i social media e i programmi televisivi. Abbiamo anche cercato indicazioni negative di censura, usando i cataloghi di parole-chiave su internet e le direttive del Dipartimento della propaganda. A partire da qui, il nostro team ha iniziato a isolare dei modelli che indicano una narrativa dominante e che suggeriscono anche alcune narrative minori ma in competizione con essa.

La metanarrativa cinese sul conflitto marittimo

La generale interpretazione cinese del conflitti marittimi è che essi simboleggiano le ingiustizie residue dell’imperialismo occidentale e giapponese, e sono inoltre una cartina al tornasole del rinnovamento della Cina. La sovranità legale cinese sui territori ceduti agli aggressori stranieri fu stabilita dagli accordi della Seconda guerra mondiale, ma a causa dell’interferenza statunitense, dell’influenza della Guerra fredda e della scarsa abilità dell’Esercito popolare di liberazione (Pla) di organizzare il potere, il controllo territoriale dovette essere rimandato. Pertanto, il governo scelse un approccio sul lungo termine e “mise da parte” la disputa mentre la Cina era debole. Ma ora, secondo la narrativa, la Cina non è più debole e perciò il governo dovrebbe usare la sua diplomazia, la sua economia e il suo potere miliare per reclamare quello che appartiene alla Cina di diritto.

In questa discussione è implicito che gli altri Paesi riconosceranno la sovranità cinese solo quando saranno costretti a farlo, e che la diplomazia, le leggi, i trattati, le prove storiche e i rapporti internazionali sono solamente soltanto strumenti per raggiungere l’obbiettivo. Nella memoria storica cinese, il diritto occidentale e le coalizioni internazionali sono state usati post-facto per legittimare quella che sarebbe altrimenti una aggressione vera e propria. La conseguenza è che, siccome il rispetto per la sovranità della Cina è un fattore fondamentale del potere nazionale, la Cina deve sviluppare competenze e specializzarsi nel campo di battaglia della legge, della diplomazia e nel creare coalizioni per contrastare gli altri pretendenti. Sun Jianguo, vice capo del General Staff del Pla, ha dichiarato di recente: “‘Niente scontro e niente conflitto’ non significa ‘niente lotta’…senza una lotta gli Stati Uniti non avranno ancora rispetto per il nucleo degli interessi cinesi” (Oriental Outlook, 5 marzo).

Quando si arriva all’applicazione del potere militare, il discorso si fa più complesso. La narrativa ufficiale enfatizza di continuo l’impegno della Cina per i negoziati pacifici come via per risolvere le dispute territoriali, mentre allo stesso tempo giustifica lo sviluppo della potenza militare per difendere i diritti legittimi della Cina. Le élite cinesi hanno capito da tempo che un conflitto militare metterebbe in pericolo la stabilità regionale sulla quale si basa il nuovo potere della Cina, ma permane una narrativa concorrente che chiede se il governo non abbia l’obbligo di utilizzare questo potere a servizio degli interessi della Cina. Per finire, la natura del conflitto – e, per estensione, la giustificazione dell’uso della forza – sembra dipendere in modo critico da come la narrativa descrive i rapporti della Cina con le altre parti in gioco.

La forza è l’ultima risorsa contro i “fratelli di sangue” a Taiwan

Delle tra aree di conflitto che abbiamo esaminato, Taiwan sembra essere il problema dove la narrativa è più univoca e dove la minaccia di un conflitto militare sembra ora più remoto. Avendo superato con successo le turbolenze createsi sotto il mandato dell’ex presidente Chen Shui-bian (2000-2008), la narrativa cinese della “riunificazione pacifica” si è rafforzata grazie alle recenti distensioni avvenute sotto l’attuale presidente Ma Ying-jeou. Però, secondo l’interpretazione del governo cinese, Taiwan non è un conflitto territoriale – perché questo presupporrebbe l’esistenza di due entità sovrane – ma una questione di disunità civile. In un discorso del dicembre 2008, l’allora presidente Hu Jintao notava: “Anche se la madrepatria e Taiwan non sono state riunite dal 1949, le circostanze per se non denotano uno stato di partizione del territorio e della sovranità cinese. Piuttosto, è semplicemente una situazione di antagonismo politico…” (Taiwan Affairs, 2008). Perciò i rivali di Pechino sono presentati come “forze secessioniste” miranti a distruggere lo status quo di unità invece che preservare un’autonomia già costituita. In ogni caso, a volte la narrativa appare conflittuale: il White Paper pubblicato a riguardo nel febbraio del 2000 cita 35 volte la parola “sovranità”, e la frase “salvaguardare la sovranità nazionale” appare più volte nei messaggi ufficiali (Taiwan Affairs Office, 2000; United Daily News, 14 marzo). Diversamente dagli altri due conflitti, la narrativa del governo enfatizza qui un’obbligazione personale e familiare della gente di Taiwan. “La gente da entrambe le parti dello Stretto di Taiwan condivide lo stesso sangue, la stessa lingua e le stesse radici. Essi sono una famiglia e non possono essere separati” ha scritto Miao Deyu, portavoce dell’Ambasciata cinese nel Regno Unito in una lettera al Financial Times (Financial Times, 17 ottobre 2014). Gli abitanti di Taiwan sono descritti come “fratelli di sangue”, e nella terminologia e nelle metafore utilizzate, Taiwan è descritta come un problema familiare. “La riunificazione nazionale che invochiamo non è solo una riunificazione formale, ma soprattutto una connessione spirituale tra le due parti”, ha detto l’attuale presidente Xi Jinping ad una conferenza del 2014 (Xinhua, 26 settembre 2014). Perciò, al suo nocciolo, la narrativa “una sola Cina” vuole preservare l’identità familiare che mantiene unita la numerosa e multietnica popolazione cinese e vuole definire la “disunificazione” come la minaccia peggiore perché legittima il rifiuto dell’identità culturale cinese. La percezione di sé della gente di Taiwan diventa quindi un segnale critico per stabilire una causalità logica sull’uso o meno della forza militare. Nella misura in cui la “riunificazione pacifica” è percepita come un mezzo per condurre la popolazione di Taiwan verso una sempre maggiore solidarietà, la pazienza è garantita e il conflitto militare è da evitare a tutti i costi. Se invece la percezione di Pechino è che la pazienza dà tempo all’identità dei  taiwanesi “non-cinesi” di crescere, allora l’attendere diventa un errore strategico e si deve considerare l’uso della forza.

Una pericolosa tigre nel Mar cinese orientale 

La disputa per il Mar cinese orientale è presentata come una lunga lotta contro un vecchio nemico, una tigre che non ha cambiato – e forse non può farlo – le sua pelle, e che aspetta nell’ombra per sfruttare ogni segno di debolezza da parte della Cina.

Ricordando le ingiustizie della conquista giapponese del territorio cinese nel 20esimo secolo, la narrativa sul conflitto del Mar cinese orientale si concentra sulla natura del Giappone, descritto come un Paese mai pentito, con nostalgie militaresche, che potrebbe sconvolgere ancora il naturale equilibrio di potere asiatico se gli fosse permesso. Avendo dichiarato le Diaoyu “territorio connaturato dai tempi antichi”, le isole sono diventate simbolo della necessaria lotta contro il riarmo giapponese (Defence News [81.cn], 13 gennaio 2015).

Per la politica interna, questo è anche un test del coraggio della Cina: poiché già una volta sono stati poco preparati a rispondere ad un’aggressione giapponese, i leader cinesi non possono apparire come sottomessi all’intimidazione giapponese. “Ricordare la storia”, “riarmo”, e “difendere la madrepatria” sono tutti temi a cui spesso si fa riferimento nelle discussioni sul caso (The Diplomat, 2 agosto 2013; China Daily, 26 marzo 2004). Allo stesso tempo c’è la preoccupazione di non alienarsi il popolo giapponese. Se i giapponesi prendono un sentiero conciliatorio e riconoscono sia il “grande potere” della Cina sia l’entità e la gravità dei loro errori passati, c’è spazio per i negoziati. Se no, la Cina deve essere preparata a combattere un’altra guerra, non per ristabilire il controllo su alcuni isolotti, ma per preservare la sicurezza della regione e provare la futilità della tendenze militaresche giapponesi.

La “coscienza marittima” nel Mar cinese meridionale

Le narrative che hanno a che fare col Mar cinese meridionale sono ben diverse. A differenza degli altri due conflitti, la miriade di dichiarazioni di sovranità cinese non sono fondate su alcun tipo di memoria pervasiva o coscienza storica, e questo è visto come un problema. I commentatori enfatizzano il fatto che la Cina, per diventare una “nazione marittima”, deve creare istituzioni, mappe, educazione e immagini per bilanciare una pericolosa mancanza di “coscienza marittima” sul “suolo nazionale blu” (Chinese State Oceanic Administration, 9 giugno 2014). Alla fine, queste piccole dispute paiono essere una cartina al tornasole della centralità della Cina nella regione, un modo per ristabilire lentamente la giusta dinamica di potere tra la Cina risorgente e le nazioni più piccole alla periferia.

Tutte le narrative enfatizzano il fatto che la Cina voglia davvero relazioni pacifiche e di mutuo beneficio nel sud-est asiatico, ma in modo implicito ciò si basa su una gerarchia che vede la Cina al comando e sulla volontà del governo cinese di usare una “durezza sufficiente” laddove necessario. Se gli Stati Uniti continuano a inserirsi in questi conflitti, l’uso della forza è ancora da evitarsi, ma una combinazione di pressione diplomatica, militare e pubblica può ricordare loro che questa strategia è ormai logora e che queste dispute sono al di fuori dei loro interessi nazionali essenziali. Si possono minacciare dimostrazioni di forza per spingere dialoghi bilaterali alle condizioni della Cina, ma tali dimostrazioni devono essere controllate per evitare di danneggiare l’immagine della Cina nella regione.

Conclusioni

La Cina in crescita continua a spostare l’equilibrio di potere nell’area Asia-Pacifico, e diventa con ciò sempre più importante capire come i comportamenti della leadership cinese sono influenzati da interpretazioni culturali del passato. Richiederà molta attenzione impedire che le” narrative” diventino “clichés”, e una comprensione profonda dal dibattito all’interno la Cina potrebbe portare un po’ più di profondità nella visione mondiale dei politici cinesi e rafforzare i negoziati con la Cina e gli altri protagonisti regionali per evitare conflitti futuri.

 

(Da: The Jamestown Foundation)

 


[1] 1 David Shambaugh, China’s Propaganda System: Institutions, Processes, and Efficacy (2007); Anne-Marie Brady, Guiding Hand: The Role of the CCP Central Propaganda Department in the Current Era (2006); Wang Zheng, Never Forget National Humiliation: Historic Memory in Chinese Politics and Foreign Relations (2012); Lei Zhang, The Google-China Dispute: The Chinese National Narrative and Rhetorical Legitimation of the Chinese Communist Party (2013).

See Andrew Chubb, Exploring China’s “Maritime Consciousness”: Public Opinion on the South and East China Sea Disputes (2015).

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