Mons. Marcuzzo: la mia missione al servizio della presenza cristiana in Terra Santa
Il vicario di Gerusalemme ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età, ma resta nell’incarico fino alla nomina - a breve - del nuovo patriarca. Ad AsiaNews ripercorre i 60 anni nella regione, di cui 50 da sacerdote e 27 da vescovo. Il Sinodo diocesano momento centrale nella vita della Chiesa. La controversia sulla moschea di Nazareth e una pace che resta possibile.
Gerusalemme (AsiaNews) - La questione fondamentale per i cristiani di Terra Santa è “sempre quella di rimanere e non emigrare”, per questo “dobbiamo continuare a lavorare per farli restare, altrimenti la comunità si svuota”. È questa la sfida più importante secondo mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, vescovo ausiliare e vicario patriarcale di Gerusalemme, che a fine agosto ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età, ma resta in carica sino alla nomina del prossimo patriarca dei Latini. “La permanenza - spiega ad AsiaNews - non è solo una questione pratica, legata alle scuole, alla politica, al lavoro quanto piuttosto a una vocazione interna: essere cristiani in Terra Santa è una vocazione e un impegno personale”.
In questa intervista il prelato ripercorre 60 anni di missione nella regione, come studente prima, poi come sacerdote e infine da vescovo negli ultimi 27. “Durante gli studi a Roma - ricorda - ho scoperto che la comunità cristiana non solo di Terra Santa, ma di tutto il Medio oriente vanta un pensiero filosofico e culturale radicato in modo profondo nel Medioevo, soprattutto nel periodo dall’800 al 1200. Questo deve far capire che essi non sono stranieri nella loro terra, ma che dalla Bibbia ad oggi vi è una continuità di legami, di letteratura e di pensiero unica, che dobbiamo valorizzare”.
Dal punto di vista pastorale, la speranza “è che possano tornare presto e vi siano sempre pellegrini, perché i luoghi santi svuotati della loro presenza” a causa della pandemia di coronavirus “sono un disastro”. “Questo vuoto - prosegue - fa molto male alle nostre famiglie, se consideriamo che il 33% di esse lavora in modo diretto o indiretto a contatto con i pellegrini. Anche dalla loro continua presenza passa l’avvenire della comunità cristiana” nella regione.
A fine agosto papa Francesco ha accettato le dimissioni per limiti di età, come previsto dal diritto canonico al raggiungimento dei 75 anni, del vescovo ausiliare di Gerusalemme. Nato a San Polo di Piave, in provincia di Treviso (Veneto), il prelato italiano ha ricoperto l’incarico per oltre 27 anni ed è stato fra i più stretti collaboratori del primo patriarca palestinese dei Latini, mons. Michel Sabbah. Egli resta per il momento vicario generale della diocesi, sino alla nomina del nuovo patriarca, che dovrebbe sostituire l’attuale amministratore apostolico mons. Pierbattista Pizzaballa.
Entrato nel 1957 nel Seminario minore dell’Istituto Missionario S. Pio X a Oderzo, tre anni più tardi è a Beit Jala dove prosegue gli studi, prima nel Seminario minore, poi in quello maggiore. Viene ordinato sacerdote il 22 giugno 1969 e consacrato vescovo il 3 luglio 1993; il 15 agosto del 2017 l’ultimo incarico, quale vicario patriarcale per Gerusalemme e la Palestina nel contesto di una vita sacerdotale e missionaria vissuta per intero in Terra Santa.
Ripercorrendo gli anni nella regione, racconta mons. Marcuzzo, “sul piano politico non vi sono stati grandi cambiamenti e, soprattutto, non è arrivata la pace. Anche gli accordi degli ultimi tempi, in particolare quello fra Israele ed Emirati, sembra quasi più un interesse privato per qualcuno, con la benedizione degli Stati Uniti, che un passo a favore dei popoli”. L’illusione di una vera pace, ricorda, “l’abbiamo vissuta negli anni fra il 1993 e il 1995, con Yitzhak Rabin e gli accordi di Oslo. In quel momento vi era davvero la speranza di un futuro nuovo, di pace, poi tramontata. Ora aspettiamo leader politici che abbiano davvero a cuore una pace basata sulla giustizia, nel solco tracciato da Giovanni XXIII con la sua ‘Pacem in Terris’, anche se al momento appare difficile”.
Il momento centrale dell’esperienza in Terra Santa resta “il grande Sinodo pastorale generale diocesano tenutosi per nove anni, che ha avuto un impatto enorme sulla vita della comunità cristiana. Questo sinodo, che aveva come slogan ‘Insieme’ e ha coinvolto tutte le confessioni cristiane e ha abbracciato anche gli ebrei e i musulmani, è stato speciale in molti sensi, soprattutto grazie alla sua organizzazione, ai metodi e ai partecipanti. Alla fine è stato pubblicato un ‘Piano pastorale generale’ per guidare la Chiesa nel nuovo millennio, attuale ancora oggi”.
In tema di rapporti con i musulmani resta centrale la controversia sorta fra il 1997 e il 2002 attorno alla costruzione di una moschea a Nazareth. “Sono stati anni difficili - ricorda - in cui in ballo non vi erano questioni di libertà religiosa o di culto, ma solo di politica. Una fazione voleva costruire una moschea davanti alla basilica dell’Annunciazione, con cinque minareti e ben più alta della basilica stessa, per sovrastarla. Noi non volevamo rovinare le ottime relazioni con la comunità musulmana locale, pur mostrando l’opposizione al progetto, e tanti musulmani hanno lottato con noi. Alla fine, senza manifestazioni ma lavorando di diplomazia e dialogo, e grazie al sostegno di papa Giovanni Paolo II, siamo riusciti a bloccare il progetto”.
Mons. Marcuzzo sottolinea il grande lavoro svolto in questi anni dall’amministratore apostolico, mons. Pizzaballa, e al nuovo patriarca che verrà individuato in un futuro prossimo chiede di “ritornare sempre alle linee guida del Sinodo diocesano". A questo, si aggiunge poi il compito primario di impedire l’emigrazione e salvaguardare la presenza cristiana. “Voglio essere ottimista - conclude il prelato immaginando il futuro, la Terra Santa nel 2050 - e credere che vi sarà sempre una forte presenza cristiana” e che potrà contribuire “a cambiare la situazione mondiale e nel Medio oriente, facendo emergere una vera giustizia e la pace… non dobbiamo mai perdere la speranza”. (DS)