12/01/2016, 00.00
HONG KONG – CINA
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La sparizione dei librai imbarazza Pechino e spacca il governo di Hong Kong

di John Ai
I cinque editori, critici nei confronti del governo cinese, sono oramai confermati in Cina. Ma l’esecutivo del Territorio sembra incapace di tutelare i loro diritti. La popolazione continua a protestare e la società civile chiede di “fare qualcosa”. La difesa incongruente dei giornali di Stato.

Hong Kong (AsiaNews) – I leader di Hong Kong sembrano muoversi senza un piano concordato per gestire la crisi della sparizione dei cinque editori, critici nei confronti del governo di Pechino. Questa ha attirato l’attenzione dei media internazionali sin dall’inizio del 2016. L’incidente ha causato un risveglio nella società civile di Hong Kong, ancora in fermento, ma sta anche imbarazzando il regime comunista. La difesa incoerente dei vari media di Stato cinesi conferma l’impasse.

Lee Bo, uno dei proprietari della Causeway Bay Bookshop, è l’ultimo in ordine di tempo a scomparire. Non si hanno sue notizie dal 30 dicembre 2015. I suoi quattro colleghi sono invece svaniti nel nulla fra l’ottobre e il novembre precedenti. La moglie di Lee ha ricevuto in un primo tempo alcune chiamate da Shenzhen (Cina meridionale), e subito dopo una lettera inviata via fax. L’autore – che si firma Lee Bo – sostiene di essere andato in Cina “di sua volontà” per “cooperare a un’inchiesta della polizia”.

Tuttavia, i controlli doganali e quelli della polizia di confine di Hong Kong non riportano il suo libero passaggio. Ma dopo aver ricevuto il fax, la moglie ha ritirato la denuncia di sparizione presentata alle autorità del Territorio. Lee ha il passaporto britannico, e Londra ha espresso “preoccupazione” per il suo caso. Wang Yi, ministro cinese degli Esteri, ha risposto che l’editore è “prima di tutto un cittadino cinese”.

Per protestare contro questa serie di incongruenze, migliaia di cittadini di Hong Kong hanno marciato lo scorso 10 gennaio 2016 fino all’Ufficio per le relazioni di Pechino. Anson Chan, amatissima ex Segretaria generale del governo dell’ex colonia, ha chiesto “con forza” al presidente cinese Xi Jinping di “mantenere le sue promesse. Una nazione, due sistemi”.

Sin dal ritorno alla madrepatria avvenuto nel 1997, infatti, Hong Kong gode di uno statuto speciale. Per 50 anni da quella data (quindi fino al 2047), il Territorio rimane in una situazione giuridica particolare: sulla carta, Pechino può intervenire soltanto per urgenti questioni di difesa o politica estera. A tutelare i cittadini vi è una piccola Costituzione, la “Basic Law”, che garantisce i diritti umani di base: fra questi piena libertà religiosa, di parola, di espressione.

La pressione nei confronti dei leader di Hong Kong ha costretto il Capo dell’Esecutivo, Leung Chun-ying, a fare una nuova dichiarazione. Secondo la legge, infatti, Pechino deve comunicare entro 14 giorni a Hong Kong eventuali azioni contro i suoi cittadini. Oggi scade il termine – Lee Bo è sparito il 30 dicembre 2015 – ma per Leung “non siamo a un punto definitivo. A volte serve di più alle autorità cinesi per rispondere, e comunque la denuncia di sparizione è stata presentata il 1 gennaio”.

Il presidente del Consiglio legislativo Jasper Tsang Yok-sing è stato invece meno diplomatico: “Il nostro governo deve considerare l’ipotesi di appellarsi con urgenza alle autorità cinesi, che devono cooperare con i nostri Dipartimenti per fare chiarezza”.

Lee Cheuk-yan, deputato democratico del Territorio, ha dichiarato che il caso di Lee Bo “rappresenta la paura peggiore dei cittadini di Hong Kong. Sparire e riapparire al di là del confine, dove i nostri diritti non sono garantiti per nulla”. Il Global Times (giornale in lingua inglese del Partito comunista) ha pubblicato una serie di editoriali per confutare le accuse di ingerenza, definite “maliziose”. Uno degli ultimi articoli sostiene che Lee Bo “sa di aver operato per colpire il governo di Pechino, e che questo è un atto grave che scavalca i confini”. 

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