Il rinnovo dell'accordo sino-vaticano: i pochi frutti di oggi e il futuro
Santa Sede e Pechino hanno annunciato il prolungamento dell’accordo per altri due anni. La Cina sembra insoddisfatta perché non si è giunti al taglio dei rapporti con Taiwan. Il Vaticano è contento dei frutti: nessun vescovo illecito. Ma non vi sono nuovi vescovi e la repressione delle comunità ufficiali e sotterranee è continuata e peggiorata. Evitare il “nominalismo dichiarazionista” e lavorare per una piena libertà religiosa.
Roma (AsiaNews) - Alle 18 di Pechino, in corrispondenza con le 12 a Roma, vi è stato l’annuncio che l’accordo provvisorio fra la Cina e il Vaticano è stato rinnovato per altri due anni, sempre in modo provvisorio e sempre in modo segreto.
Il portavoce del Ministero cinese degli esteri, Zhao Lijian, nella conferenza stampa di routine ha confermato che l’accordo sarebbe esteso per altri due anni e ha detto che Vaticano e Pechino si terranno in stretto dialogo e lavoro per migliorare i rapporti.
Mentre da parte vaticana si afferma da settimane il desiderio di continuare l’accordo, in Cina vi è stato silenzio fino ad oggi, con rare, generiche frasi sull’esperienza positiva dei due anni passati, ma senza una parola sul rinnovo.
Anche le poche parole spese oggi a conferma del prosieguo dell’accordo rivelano un’insoddisfazione di Pechino verso di esso. Come confermato da diversi esperti, il motivo fondamentale per cui la Cina si è implicata in questo dialogo è per strappare il Vaticano dai Paesi che hanno relazioni diplomatiche con Taiwan. Il ritorno dell’isola ribelle nell’alveo della madrepatria è uno dei compiti che Xi Jinping si è dato per questi anni, dopo aver sottomesso Macao e Hong Kong.
Ma per il Vaticano, la carta di Taiwan sarà l’ultima da giocare fino a che non sarà garantita piena libertà religiosa alla Chiesa cattolica. Da qui l’insoddisfazione e i pronunciamenti minimalisti di Pechino. Vero è che mantenere questo rapporto con la Santa Sede, che sfida i giudizi di Mike Pompeo e dell’amministrazione Usa, porta alla Cina un largo fiotto di simpatia da parte di tanti Paesi poveri e anti-americani, che si sentono difesi ed espressi dalla diplomazia vaticana.
Al di là delle considerazioni di geopolitica, dal punto di vista della Santa Sede l’accordo ha un enorme valore: per la prima volta, in un modo certo ambiguo e “segreto”, il pontefice viene riconosciuto come parte in causa nelle nomine dei vescovi; papa Francesco ha rivendicato addirittura “l’ultima parola” sulle nomine. Inoltre, questo esile accordo è l’inizio di un sogno che tutti i pontefici hanno coltivato: avere rapporto con questo grande Paese, dopo la cacciata da parte di Mao Zedong del nunzio Antonio Riberi nel 1951. Il nunzio aveva atteso anni di poter essere ricevuto dal Grande Timoniere, prima di essere caricato su un treno ed essere espulso ad Hong Kong, allora colonia britannica.
I frutti di questi due anni però sono ancora più esili del rapporto stesso. L’accordo era sulle nuove nomine dei vescovi. In Cina occorrerebbero almeno una quarantina di vescovi dato che vi sono diverse sedi vacanti e altre in cui i pastori sono molto anziani. Nel 2016 e all’inizio del 2018, Wang Zuoan, del ministero degli affari religiosi aveva promesso una “valanga” di ordinazioni episcopali senza il mandato della Santa Sede, andando a far crescere la confusione dei fedeli e la spaccatura nell’episcopato fra i vescovi fedeli a Roma e quelli sottomessi al Partito.
Un frutto importante dell’accordo è quello di aver fermato questa possibile “valanga”: dal giorno dell’accordo in poi non vi è stato più alcun vescovo illecito. Ma va anche detto che non vi è stata alcuna nuova nomina o ordinazione. Sebbene la storiografia ufficiale citi due ordinazioni, quella di mons. Antonio Yao Shun, di Jining (Mongolia Interna), e di mons. Stefano Xu Hongwei, di Hanzhong (Shaanxi), le due nomine erano state entrambe decise molti anni prima e non possono essere attribuite all’accordo. Lo stesso si può dire per gli insediamenti di alcuni vescovi che sono entrati nell’ufficialità.
Un frutto negativo dell’accordo è stata la fretta con cui il Vaticano ha tolto la scomunica a sette vescovi, senza che questi abbiamo compiuto alcun gesto di contrizione verso le loro comunità, e la fretta di insediare qualcuno di loro in diocesi dove la maggioranza dei fedeli appartiene alla comunità non ufficiale. Sebbene papa Francesco abbia chiesto a tutti loro un cammino di riconciliazione, le difficoltà non sono diminuite, anche a causa dell‘intromettersi delle autorità politiche nella gestione delle comunità. La situazione di mons. Guo Xijin è emblematica. Da vescovo ordinario di Mindong, su richiesta del papa, egli aveva accettato di essere retrocesso a vescovo ausiliare, per lasciare il posto di ordinario a mons. Zhan Silu, al quale papa Francesco aveva tolto la scomunica. Ma il governo non lo ha riconosciuto nemmeno come vescovo ausiliare perché egli si ostina a non voler sottoscrivere un documento di adesione alla “Chiesa indipendente”. Né mons. Zhan, né il Vaticano sono riusciti a trovare il modo di salvaguardare la libertà di mons. Guo e di altri 20 sacerdoti della diocesi. Da qui la decisione di mons. Guo di dare le dimissioni dai suoi incarichi pubblici.
La situazione è ancora più negativa se si guarda all’insieme della Chiesa in Cina, dove sono cresciuti i controlli sulle comunità ufficiali (croci divelte, chiese distrutte, divieto di educazione religiosa ai giovani,…) e la repressione verso quelle non ufficiali (chiese chiuse, sacerdoti cacciati via, distruzioni di cimiteri, isolamento per i vescovi,…).
Fino ad ora il Vaticano ha sempre sostenuto che l’accordo riguarda solo le nomine dei vescovi e non si poteva affrontare tutti i problemi; inoltre, si afferma che i suoi delegati hanno sempre attirato “l’attenzione del governo cinese” a queste violazioni sulla libertà religiosa. In questi due anni di prolungamento è necessario che l’accordo, i rapporti, i dialoghi intensificati fra Cina e Vaticano portino più libertà religiosa, altrimenti proprio l’accordo rischia di diventare, come dice papa Francesco nella sua nuova enciclica riguardo alla politica internazionale, un “nominalismo dichiarazionista”, di belle parole senza fatti.
Intanto, è anche importante che la Chiesa universale sostenga le comunità cristiane in Cina con la preghiera, la solidarietà, le visite, l’aiuto nell’evangelizzazione. In Cina vi è una grande sete di valori non ideologici e di Dio. E l’annuncio e la testimonianza della vita nuova nel Vangelo può portare frutto anche senza accordi perfetti o rapporti diplomatici.
06/04/2020 10:30