Il "miracolo" di p. Ragheed Ganni, esempio e guida per la vita di mio figlio
Londra (AsiaNews) - Quando nostro figlio è nato, non respirava. È abbastanza comune per i neonati, che spesso hanno bisogno di essere incoraggiati a fare il primo respiro o manualmente dalle infermiere, oppure in maniera artificiale grazie a dei macchinari sempre presenti nelle sale parto (cosa avvenuta al nostro secondo figlio). La prima volta è stata però diversa: il nostro bimbo non rispondeva, quando l'ostetrica lo ha preso dalle braccia di mia moglie. Allora qualcuno nella stanza ha spinto il bottone di emergenza e, in pochi secondi, circa una decina di medici sono entrati nella stanza. Ma il piccolo continuava a non rispondere, e allora ho sentito qualcuno dire: "Ha un arresto cardiaco".
È stato in quel momento che tutto è divenuto iperreale, cosa che avviene durante i momenti di intenso stress e panico. Non si riesce a credere che qualcosa di così terribile stia avvenendo davvero. È stato a quel punto che mi sono inginocchiato ai piedi del letto, e per qualche ragione ho pregato p. Ragheed Ganni, un sacerdote iracheno che era stato ucciso a Mosul nel giugno del 2007.
Più tardi, lo staff medico ci ha detto che nostro figlio James aveva impiegato due minuti prima di urlare al massimo dei suoi polmoni, un suono che ha portato così tanta gioia e sollievo che non sono riuscito a trattenere le lacrime e (cosa molto poco inglese) abbracciare i medici. Potete immaginare quanto siano stati lunghi quei due minuti.
I primi respiri di James e la vita che hanno rappresentato non sono stati un miracolo da nessun punto di vista: i suoi polmoni erano pieni di liquido amniotico a causa della velocità con cui è nato, ed è sopravvissuto grazie a una tecnica medica perfettamente spiegabile e alla competenza e alla passione dello staff del Whittington Birth Centre (era la terza emergenza del genere, quella mattina). Ma io ringrazio lo stesso p. Ragheed, e lo stesso penso che la sua vita di sacrificio, durante un periodo di intensa persecuzione dei cristiani, sia un modello da seguire.
Il p. Ragheed è uno dei mille cristiani iracheni uccisi durante il pogrom iniziato dopo l'invasione della Coalizione, nel 2003. La persecuzione è culminata il 31 ottobre 2010, con il massacro di 52 fedeli all'interno di una chiesa cattolica di Baghdad. Con le parole di un vescovo caldeo, questo è un "Calvario" che è stato per la maggior parte ignorato dai media occidentali, con l'esclusione della stampa cristiana. Più di recente, con l'aumento delle violenze anti-cristiane in Egitto e nell'ambito della terribile guerra civile in Siria, la questione della persecuzione dei cristiani è stata discussa in maniera più ampia. L'argomento è stato sollevato in Parlamento e discusso in maniera pubblica da un ministro (musulmano).
Si è trattato di una scioccante e orribile ordalia per una delle comunità cristiane più antiche del mondo, che è stata per lo più buttata fuori dalla sua madrepatria. La popolazione pre-guerra di 1 milione si è ridotta oggi a circa 150mila persone, per la maggior parte anziani; più di 60 chiese sono state bombardate. Nonostante tutto questo la storia di p. Ragheed è edificante, segnata da un sacrificio perfetto e da devozione, perdono e amicizia.
Il p. Ragheed veniva da Mosul, nel nord dell'Iraq, che per secoli è stata il cuore del cristianesimo siriaco. Una città cosmopolita composta da assiri, arabi, curdi, turchi, ebrei e persiani, così come da membri di comunità più piccole come i sabei, gli shabeki, i mandeani e gli yezidi. Vicina ai villaggi che ancora parlano aramaico, nella Piana di Ninive, Mosul era anche la casa di una ampia comunità di cattolici caldei (anche se il loro numero è andato scendendo nel XX secolo a causa di persecuzione, discriminazione ed emigrazione).
Ragheed era nato qui nel 1972, e si era laureato in ingegneria nel 1993. Tre anni dopo era a Roma per studiare teologia all'Angelicum, specializzandosi in teologia ecumenica. Parlava arabo, italiano, francese e inglese. Era in seminario quando, l'11 settembre, gli attacchi scossero New York e di conseguenza venne pianificata la guerra contro la sua nazione natale. Alloggiando al Collegio irlandese era noto come "Paddy l'iracheno", e avrebbe passato del tempo anche a Loch Derg (contea di Donegal). Il p. Don Kettle, ora sacerdote nell'Australia occidentale, ricorda il tempo passato con lui al seminario di san Malachia a Belfast durante la stagione delle marce, con scontri fuori dalle finestre; p. Ragheed spiegava la persecuzione del suo popolo, che sin dall'indipendenza dell'Iraq nel 1932 aveva subito attacchi e discriminazioni prima sotto i re, e dopo dai baathisti. Nulla, però, avrebbe potuto prepararli a quello che sarebbe avvenuto dopo la caduta di Saddam Hussein.
Il p. Ragheed era devastato dallo scoppio della guerra: dopo 7 anni di lontananza dalla sua famiglia, era ora insicuro riguardo la loro situazione e la loro sicurezza. Diceva di dover tornare in Iraq per prestare il suo servizio sacerdotale, nonostante i rischi, perché "quello è il posto cui appartengo, quello è il mio posto". Ma scriveva anche, con ottimismo, della ricostruzione di una "società libera" e diceva: "Saddam è caduto, abbiamo eletto un governo, abbiamo votato per una Costituzione!". Organizzava corsi teologici per la gente di Mosul, lavorava con i giovani e faceva pastorale per i poveri e i malati: fra questi un bimbo, che avrebbe poi portato a Roma per una operazione agli occhi.
Nel gennaio 2006 la violenza contro i cristiani iracheni aumenta di intensità, e una serie di attacchi esplosivi colpiscono le chiese di Baghdad e Mosul. Le milizie, sia sciite che sunnite, iniziano a colpire la popolazione cristiana per "vendicare" l'invasione americana: qualcuno arriva a biasimare il Papa che ha voluto "iniziare la guerra", nonostante i disperati tentativi di Giovanni Paolo II per evitarla.
L'atmosfera, nella città di Ragheed, inizia a divenire terrificante. Il 4 agosto 2006, quando 80 bambini della sua parrocchia dello Spirito Santo stanno ricevendo la loro Prima Comunione, la battaglia esplode nella strada e i bambini iniziano a sentire il suono di pistole e razzi. Il buon pastore li usa per aiutarli. Dice ad AsiaNews: "All'improvviso sentiamo esplosioni e spari vicino alla parrocchia. La cosa non ci è nuova, la gente è rimasta calma, ma ha iniziato a pensare se e come sarebbe riuscita a tornare a casa. Accortomi che l'immensa gioia degli 80 bambini che ricevevano l'Eucarestia si stava trasformando in panico ho cercato di sdrammatizzare: 'Non abbiate paura, la città festeggia con noi, sentite i fuochi d'artificio?'. Ho poi dato loro istruzioni per uscire velocemente e con calma dalla chiesa".
Il mese successivo, il discorso di Benedetto XVI a Regensburg viene usato come scusa per attaccare i cristiani: un sacerdote di Mosul viene decapitato. In ottobre, p. Ragheed scrive a un amico: "Il Ramadan è stato un disastro per noi a Mosul. Centinaia di famiglie cristiane hanno lasciato la città, inclusa la mia famiglia ei miei zii. Circa 30 persone hanno lasciato tutte le loro proprietà e sono scappate, perché sono state minacciate. Non è facile, ma la grazia di Dio ci dà forza e sostegno. Ogni giorno qui affrontiamo la morte".
Più tardi, gli amici ricorderanno come fosse sempre più affaticato e colpito per le necessità e le richieste di pastorale in mezzo a tanto terrore. Dopo un attacco alla sua parrocchia, durante la Domenica delle Palme del 2007, scrive: "Proviamo empatia con Cristo, che entra in Gerusalemme con la piena consapevolezza che la causa del Suo amore per l'umanità sarà la croce. Quindi, mentre i proiettili distruggono le finestre della nostra chiesa, offriamo le nostre sofferenze come segno di amore per Cristo". Mentre il 2006 scorre via e diventa il 2007, le bombe si moltiplicano; i rapimenti a Baghdad e Mosul si fanno più frequenti; la milizia sunnita nella città del nord inizia a pretendere tasse dai cristiani, mentre acqua ed elettricità scarseggiano.
In una delle sue ultime email, p.Ragheed scrive: "Ogni giorno aspettiamo l'attacco decisivo, ma non smetteremo di celebrare messa. Lo faremo anche sotto terra, dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra vera, ma speriamo di portare questa Croce fino alla fine con l'aiuto della Grazia divina".
Il 27 maggio, festa di Pentecoste, una bomba esplode nella sua parrocchia ferendo due guardie di sicurezza. Il giorno successivo, nell'ultima email inviata ad AsiaNews, scrive: "In un Iraq settario e confessionale, che posto sarà assegnato ai cristiani? Non abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta per la nostra causa, siamo soli in questo disastro. L'Iraq è già diviso e non sarà mai più lo stesso. Qual è il futuro della nostra Chiesa?".
Una settimana dopo, domenica 3 giugno 2007, alla fine della messa p. Ragheed sta lasciando la chiesa insieme ai 3 sotto-diaconi Basman Yousef Daud, Gassan Isam Bidawed e Wahid Hanna Isho. Vengono raggiunti da uomini armati. La moglie di Bidawed è in macchina con loro, ma viene separata dagli uomini. Più tardi ricorderà: "Uno degli assassini urlava contro Ragheed 'Ti ho detto di chiudere la chiesa, perché non l'hai fatto? Perché sei ancora lì?'. E lui che rispondeva con semplicità 'Come posso chiudere la casa di Dio?'. Lo hanno buttato per terra, e Ragheed ha avuto solo il tempo di indicarmi con la testa che me ne dovevo andare. Hanno aperto il fuoco e li hanno uccisi tutti e quattro".
I terroristi mettono dell'esplosivo sui loro corpi: ci vogliono ore prima di poterli sistemare. Nonostante la minaccia di violenze, oltre 2mila persone partecipano ai funerali dei 4 uomini. La messa è celebrata dal vescovo di p. Ragheed, Mar Paulos Rahho, arcivescovo di Mosul. Mar Rahho è noto per aver criticato l'incorporazione della sharia nella Costituzione irachena, e in un viaggio a Roma fatto in quello stesso anno accenna a minacce contro di lui. Nel marzo 2008 viene assassinato. I rapitori chiedono in un primo momento 3 milioni di dollari per il suo rilascio, ma il vescovo gli spiega che la sua diocesi non li ha, dato che ha aiutato troppe famiglie impoverite.
Nell'ottobre del 2008, circa 13mila persone - più della metà dei cristiani rimati a Mosul - scappano dopo 13 omicidi in 2 giorni: fra gli assassinati vi sono un padre con il suo bambino e un disabile. La maggior parte delle vittime possiede un negozio, e la strage suggerisce che al Qaeda in Iraq voglia distruggere il potere economico della comunità.
Nonostante le violenze contro i cristiani, la vita di p. Ragheed offre un grande messaggio di riconciliazione e perdono. Adnam Mokrani, professore di Studi Islamici all'Università Gregoriana e amico di Ragheed, scrive il giorno dopo la sua morte: "I proiettili che hanno colpito il tuo corpo, puro e innocente, hanno attraversato anche il mio cuore e la mia anima. Ho sempre il ricordo di te che sorridi, gioioso e pieno di amore per la vita. Per me Ragheed è l'innocenza personificata; una saggia innocenza che porta nel suo cuore i dolori del suo infelice popolo". Come musulmano, il prof. Mokrani prega per l'anima di Ragheed e chiede: "Nel nome di quale dio della morte ti hanno ucciso? In nome di quale paganesimo ti hanno crocifisso? Sapevano veramente cosa stavano facendo? Fratello, il tuo sangue non è stato versato invano e l'altare della tua chiesa non è stato una finzione... Hai assunto il tuo ruolo con profonda serietà fino alla fine, con un sorriso che non si spegnerà mai".
La sofferenza dei cristiani del Medio Oriente è su un livello che rende per noi difficile confrontarci con le statistiche del passato. Ma questa storia, la storia di un uomo che ha scelto il sentiero del sacrificio, mi ha sempre colpito per la sua estrema potenza. Nessuno vuole morire, e posso solo immaginare quanto abbia desiderato vivere con più facilità lasciando Mosul. Eppure, ha scelto la via più dura.
Gli amici ricordano che, con l'intensificarsi della guerra, Ragheed appariva sempre più stanco, come se portasse una croce. Ma parlando al Congresso eucaristico italiano, nel 2005, disse: "Qualche volta io stesso mi sento fragile e pieno di paura. Quando, con in mano l'eucarestia, dico le parole: "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo", sento in me la Sua forza: io tengo in mano l'ostia, ma in realtà è Lui che tiene me e tutti noi, che sfida i terroristi e ci tiene uniti nel suo amore senza fine". "Il suo amore senza fine": ricordo che stavo leggendo e che questa frase mi rimase impressa. Credo sia per questo che, nel momento in cui ho avuto più paura, ho pensato a p. Ragheed e l'ho pregato.
Circa una settimana dopo la nascita, e con un bambino sano le cui urla sono ora un pochino meno ben accolte di quelle emesse per la prima volta, ho preso i documenti e le note dell'ospedale e sono andato al municipio di Islington per registrare la nascita. Avevamo deciso di chiamarlo James, come il fratello di mia madre, e avevamo scelto anche un paio di secondi nomi. Ma, nonostante le proteste di mia moglie, io volevo altro.
Mentre uscivo le ho detto: "Sai che devo farlo". E oggi nostro figlio porta il nome Ragheed sul suo passaporto, e forse è il primo inglese a farlo. Spero che non me ne vorrà, e che questo possa essere per lui un esempio e una guida sul sentiero della sua vita.
*vice direttore del britannico Catholic Herald e autore di "The Silence of Our Friends: The Extinction of Christianity in the Middle East", in vendita su Amazon. L'articolo originale si trova qui.
24/01/2009
10/05/2021 15:01