Il deserto dell’Arabia saudita contro la primavera araba
di Bernardo Cervellera
A Riyadh la “rivoluzione dei gelsomini” è stata soprattutto “virtuale”, espressa da blogger e petizioni. Ma è stata subito soffocata, accusata di essere una “sedizione” contro Allah e una manovra “iraniana”. Alcuni manifestanti sono scomparsi nelle mani della polizia. La richiesta di una costituzione “scritta da mani d’uomo” considerata un’offesa al Corano (“non scritto da mani d’uomo”). Ha avuto un peso anche l’appoggio incondizionato dei governi occidentali ai Saud.
Venezia (AsiaNews) – La primavera araba, che sta trasformando il volto delle società in Africa del nord e in Medio oriente ha la sua tomba: l’Arabia saudita. E questo non per motivi di integralismo religioso, ma per la forza di un potere politico che “sottomette” la religione al suo dominio. È un’immagine tutta speciale del regno saudita quella che è emersa oggi al secondo giorno del raduno del Comitato scientifico della rivista Oasis, che si interroga sul futuro della “primavera araba”.
Relatrice d’eccezione sull’impatto della “rivoluzione dei gelsomini” nel regno dei Saud è stata la prof. Madami al-Rasheed, del King’s College di Londra. “Il regime – ha detto – ha spiegato strategie religiose, di sicurezza ed economiche per sopprimere ogni piccolo segno virtuale, prima che si manifestasse come una reale protesta”.
All’inizio – ha spiegato Madami – i regnanti sauditi hanno fatto di tutto per dire che l’Arabia “è diversa” dalla Tunisia, dall’Egitto, dal Bahrain: “erano quasi pronti a dire che noi non siamo arabi!”. In realtà la situazione sociale a Riyadh è molto simile agli altri Paesi arabi: disoccupazione al 30%, soprattutto fra i giovani; 78% delle donne istruite senza lavoro; corruzione; gestione del potere come “negli antichi principati italiani del Rinascimento”.
Poiché il controllo sociale è enorme, la “rivoluzione dei gelsomini” in Arabia si è espressa soprattutto nel web. “Nel febbraio 2011 molte petizioni sono circolate su siti internet, domandando riforme politiche”. Ma il regime le ha subito oscurate. La distribuzione di benefici economici a pioggia doveva servire a placare le richieste di maggior benessere da parte dei disoccupati. Ma le petizioni non si sono fermate.
Fra le domande più insistenti, oltre al riconoscimento dei diritti umani, della partecipazione politica, della fine della corruzione, vi è quella di scrivere una costituzione “fatta da mani d’uomo”: i regnanti sauditi, infatti, affermano che il Paese non ha bisogno di una costituzione, perché “la nostra costituzione è il Corano (non “fatta da mani d’uomo, ma da Allah”)”.
Anche le “giornate dell’ira”, che negli altri Paesi arabi hanno radunato milioni di persone, in Arabia saudita si sono svolte solo sul web, con firme di petizioni e proclami e con indicazioni pratiche per scavalcare la censura ufficiale.
L’iniziale intervento per sedare le rivolte in Bahrain è servito ai Saud per bollare tutte le rivolte arabe (e soprattutto quella in casa propria) come un “complotto dell’Iran”, manovrato dall’esterno, in cui non sono estranee mani straniere (occidentali).
Sfruttando “l’iranofobia” e usando metodi duri (la scomparsa nelle mani della polizia, di giovani blogger come Muhammad al-Wadani), perfino alcuni piccoli accenni di manifestazione sono stati cancellati.
Anche la religione – coi dottori coranici che sono di fatto dei burocrati al soldo dei regnanti – è servita a stigmatizzare ogni desiderio di cambiamento, visto come un attentato verso Allah, come un invito al caos (fitna).
Relatrice d’eccezione sull’impatto della “rivoluzione dei gelsomini” nel regno dei Saud è stata la prof. Madami al-Rasheed, del King’s College di Londra. “Il regime – ha detto – ha spiegato strategie religiose, di sicurezza ed economiche per sopprimere ogni piccolo segno virtuale, prima che si manifestasse come una reale protesta”.
All’inizio – ha spiegato Madami – i regnanti sauditi hanno fatto di tutto per dire che l’Arabia “è diversa” dalla Tunisia, dall’Egitto, dal Bahrain: “erano quasi pronti a dire che noi non siamo arabi!”. In realtà la situazione sociale a Riyadh è molto simile agli altri Paesi arabi: disoccupazione al 30%, soprattutto fra i giovani; 78% delle donne istruite senza lavoro; corruzione; gestione del potere come “negli antichi principati italiani del Rinascimento”.
Poiché il controllo sociale è enorme, la “rivoluzione dei gelsomini” in Arabia si è espressa soprattutto nel web. “Nel febbraio 2011 molte petizioni sono circolate su siti internet, domandando riforme politiche”. Ma il regime le ha subito oscurate. La distribuzione di benefici economici a pioggia doveva servire a placare le richieste di maggior benessere da parte dei disoccupati. Ma le petizioni non si sono fermate.
Fra le domande più insistenti, oltre al riconoscimento dei diritti umani, della partecipazione politica, della fine della corruzione, vi è quella di scrivere una costituzione “fatta da mani d’uomo”: i regnanti sauditi, infatti, affermano che il Paese non ha bisogno di una costituzione, perché “la nostra costituzione è il Corano (non “fatta da mani d’uomo, ma da Allah”)”.
Anche le “giornate dell’ira”, che negli altri Paesi arabi hanno radunato milioni di persone, in Arabia saudita si sono svolte solo sul web, con firme di petizioni e proclami e con indicazioni pratiche per scavalcare la censura ufficiale.
L’iniziale intervento per sedare le rivolte in Bahrain è servito ai Saud per bollare tutte le rivolte arabe (e soprattutto quella in casa propria) come un “complotto dell’Iran”, manovrato dall’esterno, in cui non sono estranee mani straniere (occidentali).
Sfruttando “l’iranofobia” e usando metodi duri (la scomparsa nelle mani della polizia, di giovani blogger come Muhammad al-Wadani), perfino alcuni piccoli accenni di manifestazione sono stati cancellati.
Anche la religione – coi dottori coranici che sono di fatto dei burocrati al soldo dei regnanti – è servita a stigmatizzare ogni desiderio di cambiamento, visto come un attentato verso Allah, come un invito al caos (fitna).
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