Cristiani caldei, dopo 5 anni il sogno umiliato dell'Iraq
di Yawnan Al-Muselly*
A cinque anni dall’invasione americana dell’Iraq, pubblichiamo la testimonianza pervenuta ad AsiaNews di un cristiano caldeo di Mosul. La comunità è ancora sotto shock per la perdita del suo pastore, mons. Rahho, ucciso sotto sequestro questo mese. Gli interrogativi che ancora avvolgono il caos di quella che oggi è l’ultima roccaforte urbana di al Qaeda in Iraq.
Mosul (AsiaNews) – Gli iracheni non desiderano più libertà e democrazia, ma solo tornare almeno allo stato in cui vivevano prima del 2003. Le aspettative con cui cinque anni fa avevamo guardato l’esercito statunitense entrare a Baghdad, si sono dissolte. Oggi il nostro non è più un Paese: manca una struttura statale, ministeri, un’amministrazione efficiente, un esercito; il governo centrale non rappresenta un’autorità credibile, né ha il potere di fare alcun passo verso la riconciliazione; il numero di profughi interni e all’estero aumenta (4,5 milioni); la gran parte della popolazione vive senza accesso ai servizi di base: la fornitura di luce in alcune zone è di appena due ore al giorno; il sistema scolastico e sanitario è al collasso; non si riesce a ricostruire nemmeno un muro o un ponte senza che questo non divenga obbiettivo di bombe o gli operai che vi lavorano siano presi di mira.
L’Iraq nel 2003 veniva da 13 anni di embargo e al momento dell’invasione era un Paese già in difficoltà, quello che speravamo era risollevarci e progredire, non sprofondare più in basso. Certo parlare di rimpianto per i tempi di Saddam è eccessivo. Anche per la comunità cristiana, che spesso alcuni ritengono tra le “favorite” del rais. I cristiani, è vero, non hanno subito campagne di sterminio riservate a sciiti e curdi, ma solo perché eravamo e siamo una comunità più facile “da gestire”: la nostra fede rifiuta la violenza e la lotta armata e, da minoranza, anche se contraria alla politica del Baath, abbiamo sempre scelto un profilo basso. Come oggi eravamo la comunità più vulnerabile. Ma a differenza di oggi non ci sentivamo stranieri nella nostra terra. Il cristiano Tareq Aziz, l’allora vice presidente sotto Saddam, era ai vertici dello Stato solo perché fin dall’inizio è stato in prima linea nella battaglia del partito Al-Baath per la presa del potere nel Paese, e non certo per la sua appartenenza religiosa. Gli ultimi anni della dittatura di Saddam sono stati caratterizzati da una feroce campagna antioccidentale, in cui rientrava il divieto di portare nome non arabi, quindi anche cristiani. Il problema più grande, allora come oggi, era la missione. Se le autorità venivano a sapere di un sacerdote che battezzava un musulmano, quello perdeva ogni diritto e persino la sua firma non era più valida per nessun documento. Il partito Baath aveva vietato ogni insegnamento privato e la Chiesa ha visto nazionalizzate tutte le sue scuole. Fenomeno che ha colpito anche le facoltà di teologia Al-Hausa Al-Elmia dirette dagli sciiti.
Allo stato attuale dei fatti nessuno può dire cosa sia meglio per l’Iraq. Gli sbagli e i fallimenti dell’amministrazione Bush sono sotto gli occhi di tutti. Il ritiro o la permanenza delle truppe americane comportano, comunque, una ferita per il nostro popolo. Il tema iracheno è addirittura passato in secondo piano anche nella campagne per le presidenziali statunitensi. È evidente che gli stessi Stati Uniti non sanno cosa fare. Washington non ne aveva idea neppure cinque anni fa. Ho visto con i miei occhi la distruzione di ogni proprietà statale, di uffici, ministeri, musei, biblioteche. I primi giorni dopo la caduta di Saddam, bastava scrivere “proprietà privata” su un muro che nessuno lo avrebbe toccato, ma tutto il resto è stato barbaramente saccheggiato. L’esercito iracheno è stato mandato a casa con tutte le armi e la disperazione che posso nutrire uomini ormai disoccupati e in un Paese in guerra.
Forse si poteva evitare il caos di Mosul
Con la politica demografica di Saddam, Mosul è diventata a maggioranza sunnita. Un forte sentimento anti-cristiano è sempre stato presente tra i fondamentalisti islamici in città, ma era tenuto a freno dal regime: il governo era laico ed erano banditi i partiti religiosi. Ora la città è al 90 per cento fuori dal controllo delle autorità e si parla ormai di “Stato islamico”, con i cristiani costretti a scegliere tra il pagamento della “tassa di compensazione” per i non musulmani, la fuga o la morte. Le donne devono indossare il velo, i rapimenti sono all’ordine del giorno. Il sequestro e l’uccisione dell’arcivescovo mons. Paulos Faraj Rahho, trovato cadavere il 13 marzo, dimostra che in città vi è un vero e proprio piano per costringerci a scappare.
Nel 2003 a Mosul era comandate della 101ª Divisione Aviotrasportata, il gen. David Petraeus, che da subito aveva iniziato progetti di ricostruzione e a lavorare per guadagnarsi il consenso dei civili. È venuto diverse volte in visita all’episcopato, dove incontrava i leader religiosi locali. Il terrorismo non scomparve, ma perse seguaci e la popolazione cominciò ad opporsi al fondamentalismo. Venne però richiamato negli Usa per tornare in Iraq nel 2004 e assumere nel 2007 il comando delle truppe americane nel Paese. Con i successi che il suo “surge” ha portato a Baghdad e di cui ora tutti parlano. Perché cinque anni fa non gli è stato permesso di continuare quel lavoro a Mosul? È una domanda su cui varrebbe la pena riflettere e pretendere una risposta.
Prima della guerra i cristiani in Iraq erano il 3 per cento della popolazione, circa un milione in tutto. Oggi, secondo stime non ufficiali, la comunità è dimezzata: circa 400mila – 500mila fedeli, di cui i caldei rappresentano ancora la maggioranza.
*Cristiano caldeo a Mosul
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