27/09/2019, 15.15
PAKISTAN
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Corte suprema pakistana assolve un uomo accusato di blasfemia dopo 18 anni di carcere

di Shafique Khokhar

Wajih ul Hassan era stato condannato a morte nel 2002. In seguito la sentenza è stata confermata dall’Alta corte di Lahore. Educatore: “Chi gli ridarà 18 anni di vita? La società e lo Stato riformuleranno le leggi? La risposta è no. Per questo imploriamo il perdono della sua famiglia”.

Islamabad (AsiaNews) – La Corte suprema del Pakistan ha assolto un uomo accusato di blasfemia che ha trascorso 18 anni in carcere. Wajih ul Hassan era stato condannato a morte nel 2002 da un tribunale di Lahore per oltraggio al profeta Maometto secondo la sezione 295C del Codice penale pakistano. Ad AsiaNews alcuni attivisti laici esprimono soddisfazione per l’assoluzione e dispiacere per Hassan, rinchiuso per tanti anni per un fatto non commesso. Hamza Arshad, educatore e giornalista, dichiara: “L’omicidio è il crimine più grave, ma è persino peggio detenere una persona innocente dietro le sbarre per 18 anni”.

Il 25 settembre il tribunale composto da tre giudici, guidati da Sajjad Ali Shah, ha stabilito che le prove presentate contro il condannato non sono sufficienti per mandarlo al patibolo e ne ha stabilito il rilascio. Al momento l’uomo si trova ancora nel carcere di Kot Lakhpath. I giudici hanno ribadito che in casi così controversi, dove la prova “maestra” era una presunta lettera blasfema, deve prevalere “la presunzione d’innocenza”.

Hashir Ibne Irshad, direttore di EXIST Communications, sottolinea: “Dopo Rimsha Masih e Asia Bibi, Wajih ul Hassan è la terza vittima prosciolta dall’accusa di blasfemia da una corte superiore. Di rado i tribunali di grado inferiore assolvono le vittime. I processi sono molto costosi e i familiari degli accusati arrivano a vendere tutto ciò che hanno, vivendo nell’indigenza e nel dolore costante”. Lo scrittore lancia una provocazione: “Deve essere riformato il sistema procedurale dei casi di blasfemia e stabilito che entrambi – accusato e accusatore – devono rimanere in carcere durante il processo. A quel punto credo che nessuno più farebbe false denunce”. In Pakistan, sottolinea, “il sistema giudiziario fa acqua da tutte le parti, dal basso al vertice. I tribunali non sono trasparenti e equi. Le leggi sulla blasfemia sono applicate per risolvere dispute personali. Ci sono decine di esempi che lo provano. Addirittura a volte i tribunali superiori stabiliscono la liberazione dopo vari anni di carcere, senza nemmeno sapere che il presunto colpevole è già morto mentre era in prigione”.

Michelle Chaudhary, direttore esecutivo della “Cecil and Iris Chaudhary Foundation”, dice: “Secondo voi, è stata fatta giustizia? Una persona ha trascorso 18 lunghi anni della sua vita nel braccio della morte per un crimine che non aveva commesso. Un crimine che [i suoi accusatori] non sono nemmeno riusciti a provare in tribunale. Ora cosa succede a chi lo aveva accusato falsamente? È tempo di ritenere responsabile anche chi denuncia. Se il crimine non esisteva, perché un tribunale lo ha condannato a morte? E perché poi la sentenza è stata confermata dall’Alta corte di Lahore?”.

Secondo Bilal Warraich, attivista e difensore d’ufficio, “in Pakistan le leggi sulla blasfemia sono così draconiane nella natura che le folle prendono la legge nelle loro mani e gli accusati sono linciati a morte, oppure costretti a languire in prigione per anni senza poter fare ricorso alla giustizia. Wajih ul Hassan e Asia Bibi sono solo due esempi: ci sono centinaia di cittadini innocenti in prigione, i loro casi sono in sospeso, gli avvocati sono costretti a fuggire per salvarsi la vita, fin dall’omicidio dell’avvocato e attivista Rashid Rehman. Prima di lui, il governatore del Punjab Salman Taseer è stato assassinato dalla sua guardia del corpo perché chiedeva la riforma delle leggi sulla blasfemia”. L’avvocato ritiene che sia “interessante sottolineare che la ‘spada’ della blasfemia non colpisce solo le minoranze, ma anche i musulmani. Controversie sui terreni, i soldi e l’‘onore’ diventano proiettili d’argento per le leggi sulla blasfemia. Come avvocato, ritengo che queste norme siano ripugnanti per il vero spirito della Costituzione che sostiene l’uguaglianza all’art. 10A del capitolo 2”.

L’educatore Hamza Arshad è disilluso: “Potrebbe essere scioccante per il mondo civilizzato, ma nel nostro Paese è la routine. Le nostre prigioni pullulano di innocenti rinchiusi a causa di un sistema giudiziario penoso. La lunga e dolorosa prigionia di Wajih ul Hassan ci ricorda che la legge viene usata per perseguitare i cittadini. Si può solo immaginare l’orrore provato da quest’uomo, ciò che egli deve aver pensato all’ombra del cappio che incombeva, lo spasimo senza fine della famiglia, l’umiliazione e la minaccia provate dalla comunità. Ora che la Corte suprema lo ha assolto, chi gli ridarà 18 anni di vita? Gli consentiranno di vivere una vita normale in mezzo alla gente? L’avvocato che ha sporto denuncia sarà arrestato o processato? La società e lo Stato riformuleranno le leggi? La risposta è no. Per questo imploriamo il perdono della famiglia di Wajih ul Hassan, perché lo Stato e la società non faranno nulla per riscattarli”.

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