Attivista condannato a cinque anni di prigione per aver difeso la lingua tibetana
La sentenza pronunciata oggi da una Corte del Qinghai. Tashi Wangchuk è stato arrestato nel 2016 per un video del New York Times in cui sosteneva il diritto dei tibetani a usare la loro lingua madre. Pechino continua a reprimere e marginare la cultura tibetana.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Condannato a cinque anni di prigione per aver “incitato al separatismo”. È la pena che sconterà Tashi Wangchuk, attivista tibetano, per aver difeso il diritto ad utilizzare la propria lingua madre. A darne notizia è l’ong internazionale per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw).
La sentenza è stata pronunciata oggi da una Corte nella prefettura di Yushu, nella provincia del Qinghai. Tashi Wangchuk, 31 anni, è stato arrestato il 27 gennaio 2016 dopo essere apparso in un video del New York Times, nel quale difendeva il diritto dei tibetani ad imparare e studiare la loro lingua madre. Al quotidiano newyorkese, Tashi ha dichiarato in modo esplicito che la richiesta non riguardava l’indipendenza del Tibet.
Sin dal suo arresto, diversi governi, esperti di diritti umani dell’Onu e organizzazioni internazionali hanno chiesto più volte il suo rilascio. “L’unico ‘crimine’ di Tashi Wangchuk – afferma Sophie Richerdson, direttrice di Hrw per la Cina – è di aver chiesto in modo pacifico il diritto delle minoranze ad utilizzare la propria lingua”. Per la direttrice, la condanna dell’attivista “dimostra che i critici delle politiche del governo sulle minoranze non hanno alcuna protezione legale”.
Pechino porta avanti una campagna di progressiva emarginazione della lingua tibetana: nel 2012, l’idioma tibetano è stato eliminato dalle scuole pubbliche del Qinghai e del Gansu, mentre le scuole private che insegnavano in lingua tibetana sono state costrette a chiudere. Negli ultimi anni le autorità cinesi hanno arrestato decine di scrittori, artisti, cantanti, educatori, accademici tibetani colpevoli di voler salvaguardare la loro cultura e i loro diritti civili. Secondo il capo spirituale del buddismo tibetano, il Dala Lama, l’occupazione cinese del Tibet si sta manifestando come un “genocidio culturale”.