15/01/2025, 12.54
GOLFO
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Vicario d’Arabia: da Gaza a Damasco, regione ‘sospesa’ fra nuovi leader e antiche tensioni

di Dario Salvi

Dalle questioni politiche al Giubileo, mons. Berardi racconta ad AsiaNews la Chiesa e le società del Golfo. L’ascesa di Hay’at Tahrir al-Sham in Siria (con la cacciata di Assad) e l’elezione presidenziale in Libano segnano un punto a favore di Riyadh, in un quadro di debolezza iraniana. Le “ambiguità” sui “martiri” palestinesi. Cristiani testimoni di speranza, contributo allo sviluppo delle società.

Milano (AsiaNews) - “Wait and see. Aspettiamo e vediamo”. Le leadership del Golfo, come le cancellerie in Occidente, “si interrogano” sulle mosse del nuovo governo a Damasco guidato dai miliziani di Hay’at Tahrir al-Sham, un tempo affiliati al fronte di al-Nusra (ex al-Qaeda) e dal loro capo Abu Mohammed al-Jolani in un clima di “attesa”. È quanto racconta ad AsiaNews il vicario apostolico dell’Arabia settentrionale mons. Aldo Berardi, sacerdote dell’Ordine della Santissima Trinità e degli Schiavi di cui è stato vicario generale, da due anni alla guida del Nord. Un’ascesa improvvisa, quanto inaspettata, capace di rovesciare il decennale regime siriano di Bashar al-Assad. “Di certo l’Arabia Saudita - prosegue il prelato - è fra le prime a sostenere questo nuovo corso ed è quella che sembra emergere con maggiore forza” in un quadro incerto. E registra come ulteriore successo “l’elezione di Joseph Aoun come presidente in Libano”.

Una regione in sospeso

“Non si possono scindere gli eventi in Siria, con quanto è accaduto in Israele, a Gaza e Libano. Tutto è collegato, dallo shock provocato dall’attacco di Hamas alla risposta tremenda” dello Stato ebraico, che è “esagerata e inaccettabile” per la popolazione, che “patisce questo conflitto”. “La caduta di Assad - spiega - è stata percepita come un fattore positivo” fra le monarchie del Golfo, perché ha segnato una ulteriore disfatta per un Iran già colpito e indebolito nei suoi alleati nell’area, da Hamas ai libanesi di Hezbollah, fino agli Houthi in Yemen. Al contempo è necessario considerare la differenza fra sunniti e sciiti, che in nazioni come il Bahrein rappresentano la maggioranza. Uno degli ultimi fronti è quello libanese, che solo nei giorni scorsi ha archiviato una crisi politica e istituzionale che si protraeva da oltre due anni, con la vacanza della carica presidenziale risolta “in modo apprezzabile” con l’elezione del comandante dell’esercito. “Un Paese a lungo senza capo dello Stato, attaccato da Israele che ha occupato il sud e la distruzione di chiese e villaggi” percepita anche dai cristiani del Golfo come “una aggressione terribile”.

Vi è poi il capitolo riguardante Hezbollah, il movimento filo-iraniano, il cui indebolimento è stato giudicato con favore da ampi settori della società. “La debolezza di Hezbollah - riflette il vicario d’Arabia - significa la debolezza dell’Iran e, in qualche modo, ha permesso di sbloccare” lo stallo libanese. Eventi che si fatica a inquadrare, soprattutto per le divisioni fra una società - o un blocco della popolazione - che difende i palestinesi e le leadership che “tentano di agire da moderati” salvaguardando in primis i rapporti con Israele, soprattutto a livello economico. Se lo Stato ebraico “continua ad attaccare la Striscia e soffocare la popolazione locale” afferma il prelato, difficilmente si potranno instaurare piene relazioni sulla pelle “dei martiri palestinesi, come vengono definiti”. Al contempo, aggiunge, è necessario evidenziale un atteggiamento di “ambiguità” perché si evoca il dramma di Gaza, ma nulla si fa a livello politico e diplomatico per affrontare la questione, lasciando di fatto che siano martirizzati: l’Arabia Saudita non li vuole, l’Egitto ha chiuso, la Giordania ne ha già molti come il Libano e pure la Siria non può essere considerata”. 

Riyadh, Teheran e i fronti di dialogo

Fra gli elementi di maggior interesse quello che collega Riyadh a Teheran, che nell’ultimo periodo avevano fatto registrare una ripresa delle relazioni dopo anni di forti tensioni legate all’assalto nel 2016 al consolato saudita in Iran in risposta all’esecuzione del leader sciita Nimr al-Nimr. Una controversia che ha innescato ripercussioni a livello regionale, fra cui l’isolamento del Qatar (interrotto a inizio 2021) perché considerato troppo vicino alla Repubblica islamica. “Anche qui dobbiamo aspettare - osserva il 61enne vicario apostolico - perché è presto per cogliere gli equilibri e i cambiamenti. Vi è un Iran più debole, con problemi interni e senza il sostegno dell’Iraq, così come è venuto meno quel ‘cordone’ attorno all’Arabia Saudita costituito da Hezbollah, Houthi, gli sciiti in Bahrein e la Siria di Assad. Oggi il “nemico” comune, almeno sulla carta, è Israele in una difesa nominale dei palestinesi, ma non è da escludere il tentativo di sfruttare “l’attuale debolezza iraniana per prendere posizione”. Sullo sfondo il ritorno alla Casa Bianca del presidente (eletto) Usa Donald Trump, afferma il vicario, che “verrà sicuramente [e presto] nella zona, come ha fatto in passato per ricucire i rapporti con Riyadh dopo gli anni di crisi col predecessore Barack Obama”. 

Quello del dialogo è un fronte che non riguarda solo la politica, ma riveste grande importanza a livello religioso per i cattolici, e i cristiani più in generale, in un territorio a larghissima maggioranza musulmano. “Nel nord non abbiamo la Casa abramitica (di Abu Dhabi), ma in Bahrein il tema del dialogo fra fedi è presente da tempo e promosso dal monarca stesso, che ha scritto un testo sulla coesistenza”. Il regno è un esempio di coabitazione da secoli, osserva, tanto che “il primo tempio induista vanta 200 anni. La prima chiesa è stata edificata 75 anni fa, vi è poi un tempio buddista, uno sikh e vari luoghi di culto protestanti e ortodossi, a conferma dello spazio garantito alle altre fedi”. Diversa la realtà del Qatar dove il livello “è più formale”, sorge un centro per il dialogo “ma riguarda solo cristiani, musulmani ed ebrei”, mentre in Kuwait “non vi sono realtà ufficiali” ma sotto-traccia vi sono attività e iniziative. 

Il futuro del vicariato

Il vicariato estende la propria giurisdizione su quattro Stati della Penisola, con situazioni diverse a livello sociale, politico e di libertà religiosa: Bahrein, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita, nazione quest’ultima in cui non è ammesso altro culto oltre l’islam ma in cui vi è - sotto traccia - una presenza cattolica. Nel 2020 alla morte dell’ultimo vicario mons. Camillo Ballin, cui è succeduto come amministratore mons. Paul Hinder già vicario dell’Arabia meridionale, si contavano quasi 2,8 milioni di battezzati su circa 43 milioni di abitanti. Il territorio diviso in 11 parrocchie, la sede è in Bahrein, ad Awali, dove sorge la cattedrale di Nostra Signora d’Arabia. Una realtà composta in larghissima maggioranza da migranti economici dall’Asia, in particolare l’India, e riti diversi come quello dei siro-malabaresi cui papa Francesco concesso la giurisdizione su quanti si trovano per lavoro in Medio Oriente. In questi due anni mons. Berardi ha voluto visitare tutte le parrocchie “per capire bisogni e necessità” di ciascuna e “ora ho una visione più dettagliata di ciò che serve”. 

Le priorità, spiega, si svilupperanno a partire da tre punti fermi: la parte amministrativa, che comprende il rapporto con gli Stati e la natura giuridica, perché permangono ancora “ambiguità sulla nostra presenza”; poi, a livello di Chiesa, affrancarsi dal “devozionismo” per rafforzare l’aspetto della formazione, rilanciare il catechismo, il ministero dei laici col contributo di responsabili “a livello di vicariato, non più di singole nazioni”; infine, approfondire e valorizzare la storia della Chiesa locale, antica e nuova, con una presenza “più efficace ed effettiva” potendo contare su esperienza e iniziative promosse nell’ambito del Giubileo di Sant’Areta, momento di comunione e incontro fra i due vicariati d’Arabia. “Il Giubileo della speranza si pone in continuità” e rafforza “la comunione con la Chiesa universale. Dobbiamo essere - conclude - testimoni di speranza, accompagnare le società dei diversi Paesi e promuoverne lo sviluppo spirituale, dopo aver contribuito a quello economico. Rilanciare la sfida dell’evangelizzazione non a parole, ma con la nostra vita e le nostre opere. E quella dell’unità pur con i diversi riti e le varie lingue col vescovo che riveste un ruolo centrale, sempre attento ai bisogni di tutte le comunità”.

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