Summit democrazia di Biden: Sì a Taiwan, rabbia Cina. Dentro India e Iraq, fuori Bangladesh e Giordania
Sorprese e contraddizioni negli inviti al vertice. Washington: usati criteri Onu. Presente anche il Pakistan, ma non la Turchia di Erdogan, come tutte le monarchie del Golfo. Via libera alle Filippine del controverso Duterte, ma non alla Thailandia dominata dai militari e a Singapore (che ringrazia).
Washington (AsiaNews) – Porte aperte a Taiwan, con l’inevitabile protesta della Cina, tenuta fuori insieme all’altro avversario strategico degli Usa: la Russia. Sorprese e contraddizioni riguardo a Medio oriente, Asia meridionale e sud-est asiatico. La lista dei partecipanti al summit per la democrazia di Biden è molto più interessante dell’evento in se.
Al vertice del 9-10 dicembre, dal quale non si aspettano risultati sostanziali, il governo degli Stati Uniti ha invitato 110 Stati (più l’Unione europea). I temi principali dell’incontro saranno la difesa contro l’autoritarismo, la lotta contro la corruzione e la promozione del rispetto per i diritti umani: in sostanza, secondo gli statunitensi, il modello di regime offerto da Pechino e Mosca.
In riferimento alla partecipazione di Taiwan, il ministero cinese degli Esteri ha dichiarato che la “cosiddetta democrazia” di Washington è solo uno strumento usato per perseguire “interessi geopolitici” e mantenere “l’egemonia globale”.
Il governo Usa afferma di aver stilato la lista in base ai parametri adottati dall’Onu per definire un Paese come democratico. Secondo diversi osservatori esterni, il criterio adottato segue in realtà un doppio standard, con l’inclusione delle democrazie effettive e di quelle imperfette che però sono alleate o partner di Washington, soprattutto nella contrapposizione a Cina e Russia. Seguendo questa linea emergono però significative contraddizioni.
Tra gli Stati dell’Asia meridionale, gli Usa non hanno incluso il Bangladesh. Nel lungo governo di Sheikh Hasina, la pratica democratica nel Paese a maggioranza musulmana rimane “imperfetta”, osservano analisti locali che parlano di esclusione “sconcertante”. Anche perché gli Stati della regione invitati al summit non si possono certo definire campioni di democrazia. L’India di Modi si caratterizza per un forte nazionalismo indù, intollerante con altre fedi, soprattutto quella musulmana. Il Pakistan governato da Imran Khan è ancora dominato dall’apparato militare e di intelligence, che ha un ruolo primario nell’Afghanistan a guida talebana.
L’India è un potenziale baluardo nell’Oceano Indiano contro l’avanzata cinese. Date le sue ambiguità, soprattutto le forti relazioni economiche e militari con Pechino, l’inclusione di Islamabad tra i partecipanti al vertice è meno comprensibile. Per posizione geografica, poi, anche il Bangladesh ha un valore strategico di rilievo nella competizione tra Stati Uniti e Cina.
Colpisce anche l’assenza della Giordania, tra i Paesi arabi il più vicino e fedele agli Usa e al campo occidentale: uno Stato chiave nei tentativi di normalizzazione dei rapporti tra Israele e mondo islamico. Quasi atteso il mancato invito alla Turchia: in Occidente Erdogan è considerato alla stregua di un dittatore, che oltretutto guarda troppo al Cremlino. Ankara è però un baluardo della Nato: l’amministrazione Biden ha voluto forzare la mano, accantonando le valutazioni strategiche.
La democrazia turca non è però certo inferiore per qualità a quella dell’Iraq, l’unico Paese mediorientale invitato da Biden. Più che di governo democratico, per Baghdad si può parlare al massimo di “elettoralismo”.
Il calcolo strategico è valso invece per ammettere la presenza delle Filippine, Paese fondamentale nei piani di contenimento della Cina. Il presidente filippino Duterte è osteggiato da molti governi occidentali e dalle organizzazioni umanitarie per i metodi brutali usati nella lotta alla criminalità. Manila, con cui Washington ha formali rapporti di alleanza, si è avvicinata troppo a Pechino e va dunque riportata a bordo.
Nonostante sia una “democrazia a partito unico”, con ampie libertà economiche e un forte controllo politico, Singapore non è certo meno democratica delle Filippine. La città-Stato ha tradizionali rapporti politico-militari con Washington – ma anche importanti relazioni con Pechino. In passato il premier Lee Hsien Loong ha detto però che il suo governo non è interessato a entrare in una “coalizione di democrazie” contro la Cina.
Tra gli alleati – anche militari – degli Usa nel sud-est asiatico spicca l’assenza della Thailandia, altro Paese che negli ultimi anni ha rafforzato i legami con i cinesi. A Bangkok comanda un ex generale golpista contestato soprattutto dalle frange più giovani della popolazione, che chiedono le sue dimissioni e una “Costituzione democratica”. Secondo oppositori e critici di Prayuth Chan-ocha, il mancato invito è un segnale di sfiducia nei suoi confronti.
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