Rohingya, ‘comprensione’ per la delicata posizione di Aung San Suu Kyi
Commenti positivi di Rex Tillerson e personalità britanniche. Sul governo della Signora, le ombre dell’esercito. Colpire Aung San Suu Kyi mette a rischio la transizione democratica. Aung Shin, portavoce del partito: “I Paesi stranieri fanno loro ipotesi basate su fatti discutibili”.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) - Personalità della diplomazia mondiale esprimono comprensione per la leader birmana Aung San Suu Kyi, impegnata nel difficile processo di riconciliazione nazionale ora minacciato dalle tensioni nel nord del Paese. Attorno alla Signora si stringe la società civile del Myanmar, che si unisce in un sentimento nazionalista e respinge le accuse rivolte al governo per la crisi nel Rakhine. Aumenta la pressione internazionale sul Myanmar circa l’emergenza umanitaria in Bangladesh, strangolato dall'affluenza di quasi 389mila Rohingya in fuga dalle operazioni militari delle forze di sicurezza birmane.
Di fronte alla grandezza dell'esodo Rohingya, l'Onu non esita a parlare di “pulizia etnica” e ipotizza lo “scenario peggiore”. Ieri, il Consiglio di sicurezza ha invitato il Myanmar ad adottare misure “immediate” per fermare le “eccessive violenze” nello Stato di Rakhine.
“Seriamente preoccupato”, il Parlamento europeo adotta oggi una risoluzione che chiede all'esercito di “interrompere subito” i suoi abusi, mentre i racconti dei profughi denunciano massacri, incendi, torture e stupri di gruppo. L’Assemblea minaccia anche di ritirare il premio per i diritti umani conferito alla leader birmana Aung San Suu Kyi.
Pur condannando le “persecuzioni” contro i Rohingya, Rex Tillerson, segretario di Stato Usa, si mostra più comprensivo. Egli afferma di capire “la complessa situazione in cui si trova” il Nobel per la pace, chiamata a mediare con il potente esercito birmano, ancora in controllo di gran parte degli apparati governativi e di tutte le questioni legate alla sicurezza. In carica dall'aprile 2016 dopo le prime elezioni libere in decenni di dittatura militare, Aung San Suu Kyi ha promesso di rompere il suo silenzio il 19 settembre prossimo in un discorso televisivo.
Nonostante le Nazioni Unite definiscano “pulizia etnica” la repressione dell'esercito sui Rohingya, alcuni diplomatici occidentali – provenienti da Paesi che competono con la Cina per influenza nella nazione – affermano che abbandonare la Signora e ripristinare sanzioni potrebbe compromettere la transizione democratica del Myanmar.
Sir John Jenkins, direttore corrispondente presso l'Istituto Internazionale per gli Studi Strategici (Iiss) e ambasciatore del Regno Unito in Arabia Saudita fino al 2015, dichiara: “Se vogliamo migliorare la situazione, dobbiamo capire prima di condannare. In primo luogo, la sofferenza in Myanmar non è un’esclusiva dei Rohingya. Dal 1958 in poi, un sistema di regole rigidamente militarizzato, ha oppresso tutti i gruppi etnici in maniera indiscriminata: Burma, Shan, Mon, Karen, Kachin, Chin, Palaung, Kokang, buddisti e musulmani del Rakhine. Non ha risparmiato nessuno. Ha rovinato l'economia, distrutto la società civile e ha messo l’una contro l’altra le molte comunità che compongono il Myanmar”.
“Così – prosegue – rido quando la gente critica Aung San Suu Kyi per la mancanza di un’azione immediata contro l'oppressione dei musulmani Rakhine. Riparare il tessuto della ferita società birmana è un compito generazionale. Tutti però sono pronti a criticare lei ed il suo governo. Il trionfo elettorale del 2015 è fragile. La costituzione del 2008 conferisce ai militari tre ministeri chiave della sicurezza, un veto permanente di blocco in Parlamento e la libertà dalla sorveglianza civile. Essa ha anche impedito ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente, relegandola a consigliere di Stato e ministro degli Esteri. E questa è la chiave della situazione attuale”.
Analisti sospettano che le tensioni etniche nel nord del Paese sono alimentate dalle forze armate. Proponendosi come guardiano della nazione e del buddismo, l’esercito intende ribadire di volta in volta il proprio potere e minare il processo di democratizzazione del Paese intrapreso dalla Signora.
“Noi non amiamo i militari, ma siamo insieme su questo – afferma Nyan Win, figura di spicco della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi – La nostra sovranità non può essere violata e per questo siamo uniti. I Rohingya sono immigrati clandestini, questo è chiaro. Ma la comunità internazionale non ne fa mai menzione”.
Aung Shin, portavoce della Nld, ribadisce che solo i cittadini del Myanmar comprendono la situazione in Rakhine, in quanto “i Paesi stranieri hanno fatto loro ipotesi basate su fatti discutibili”. Molti in Myanmar temono che i musulmani Rohingya rappresentino una minaccia per i gruppi etnici nello Stato di Rakhine. Da quando i militanti dell' Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) hanno dato il via alle ostilità lo scorso 25 agosto, sei non-musulmani sono stati uccisi e quasi 30mila sono stati sfollati dalla regione.
15/11/2017 14:02