Papa: è ‘dovere evangelico’ prenderci cura dei poveri
Francesco celebrando la prima Giornata mondiale dei poveri ha ricordato che per Dio “non vale ciò che si ha, ma ciò che si dà”. “Il grande peccato nei confronti dei poveri” è “l’indifferenza”, il “girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno”, è “sdegnarsi di fronte al male senza far nulla”. Ma Dio” non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – E’ “dovere evangelico” prenderci cura dei poveri, “che sono la nostra vera ricchezza”, ricordando che per Dio “non vale ciò che si ha, ma ciò che si dà”. L’ha affermato papa Francesco che oggi ha celebrato nella basilica di san Pietro la messa per la prima Giornata mondiale dei poveri, che egli stesso ha istituito.
Più di quattromila bisognosi e in genere persone non abbienti - provenienti, oltre che da Roma e dal Lazio, da diocesi tra le quali Parigi, Lione, Nantes, Varsavia, Cracovia, Malines-Bruxelles e Lussemburgo- erano presenti in basilica e, dopo la messa saranno ospiti di un pranzo festivo insieme al Papa, che per 1.500 di loro si svolgerà nell’Aula Paolo VI e per gli altri in mense, seminari e collegi cattolici di Roma.
Per la Giornata, commentando la parabola evangelica dei talenti, Francesco ha affermato che “non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato” e che “il grande peccato nei confronti dei poveri” è “l’indifferenza”, il “girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno”, è “sdegnarsi di fronte al male senza far nulla”. Ma Dio” non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene”.
La parabola dei talenti, ha detto il Papa, “parla di doni” e “ci dice che noi siamo destinatari dei talenti di Dio, «secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,15). Prima di tutto riconosciamo questo: abbiamo dei talenti, siamo ‘talentuosi’ agli occhi di Dio. Perciò nessuno può ritenersi inutile, nessuno può dirsi così povero da non poter donare qualcosa agli altri. Siamo eletti e benedetti da Dio, che desidera colmarci dei suoi doni, più di quanto un papà e una mamma desiderino dare ai loro figli. E Dio, ai cui occhi nessun figlio può essere scartato, affida a ciascuno una missione”.
Non fare del male non è sufficiente
“Infatti, da Padre amorevole ed esigente qual è, ci responsabilizza. Vediamo che, nella parabola, a ogni servo vengono dati dei talenti da moltiplicare. Ma, mentre i primi due realizzano la missione, il terzo servo non fa fruttare i talenti; restituisce solo quello che aveva ricevuto: «Ho avuto paura – dice – e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (v. 25). Questo servo riceve in cambio parole dure: «malvagio e pigro» (v. 26). Che cosa non è piaciuto al Signore di lui? In una parola, forse andata un po’ in disuso eppure molto attuale, direi: l’omissione. Il suo male è stato quello di non fare il bene. Anche noi spesso siamo dell’idea di non aver fatto nulla di male e per questo ci accontentiamo, presumendo di essere buoni e giusti. Così, però, rischiamo di comportarci come il servo malvagio: anche lui non ha fatto nulla di male, non ha rovinato il talento, anzi l’ha ben conservato sotto terra. Ma non fare nulla di male non basta. Perché Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni e i suoi progetti (cfr v. 14). Ed è triste quando il Padre dell’amore non riceve una risposta generosa di amore dai figli, che si limitano a rispettare le regole, ad adempiere i comandamenti, come salariati nella casa del Padre (cfr Lc 15,17)”.
“Il servo malvagio, nonostante il talento ricevuto dal Signore, che ama condividere e moltiplicare i doni, l’ha custodito gelosamente, si è accontentato di preservarlo. Ma non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato. Invece, dice la parabola, colui che aggiunge talenti nuovi è veramente «fedele» (vv. 21.23), perché ha la stessa mentalità di Dio e non sta immobile: rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri, non accetta di lasciare tutto com’è. Solo una cosa tralascia: il proprio utile. Questa è l’unica omissione giusta. L’omissione è anche il grande peccato nei confronti dei poveri. Qui assume un nome preciso: indifferenza. È dire: ‘Non mi riguarda, non è affar mio, è colpa della società’. È girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno, è cambiare canale appena una questione seria ci infastidisce, è anche sdegnarsi di fronte al male senza far nulla. Dio, però, non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene”.
Per piacere a Dio, allora, seguiamo le indicazioni del Vangelo. Subiti dopo la parabola dei talenti, “Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato”. “Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore. Quando vinciamo l’indifferenza e nel nome di Gesù ci spendiamo per i suoi fratelli più piccoli, siamo suoi amici buoni e fedeli, con cui Egli ama intrattenersi”. “Questa è la vera fortezza: non pugni chiusi e braccia conserte, ma mani operose e tese verso i poveri, verso la carne ferita del Signore. Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una ‘forza salvifica’. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro ‘passaporto per il paradiso’. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali”.
“E ci farà bene: accostare chi è più povero di noi toccherà la nostra vita. Ci ricorderà quel che veramente conta: amare Dio e il prossimo. Solo questo dura per sempre, tutto il resto passa; perciò quel che investiamo in amore rimane, il resto svanisce. Oggi possiamo chiederci: ‘Che cosa conta per me nella vita, dove investo?’ Nella ricchezza che passa, di cui il mondo non è mai sazio, o nella ricchezza di Dio, che dà la vita eterna? Questa scelta è davanti a noi: vivere per avere in terra oppure dare per guadagnare il cielo. Perché per il cielo non vale ciò che si ha, ma ciò che si dà, e «chi accumula tesori per sé non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Non cerchiamo allora il superfluo per noi, ma il bene per gli altri, e nulla di prezioso ci mancherà. Il Signore, che ha compassione delle nostre povertà e ci riveste dei suoi talenti, ci doni la sapienza di cercare ciò che conta e il coraggio di amare, non a parole ma coi fatti”.