Nazionalismo e islam: le armi del ‘sultano’ Erdogan per controllare la Turchia
Crisi economica e questione immigrati avevano offuscato il consenso. L’offensiva contro i curdi nel nord-est della Siria ha rilanciato l’immagine di leader vincente. Da un minimo storico del 33,7%, oggi il consenso è schizzato al 48%. Sulla pelle di curdi, rifugiati, cristiani e oppositori politici vittime della repressione.
Istanbul (AsiaNews) - Nazionalismo e islam per mantenere il potere e allontanare lo spettro di una crisi economica che, in termini di consenso, è costata il controllo delle due città più importanti - la capitale Ankara e il cuore commerciale Istanbul - alle elezioni amministrative di marzo. Sono queste le armi usate dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan per riconquistare la leadership del Paese, che sembrava vacillare nei mesi scorsi sotto i colpi di una inflazione crescente, dal crollo delle esportazioni e dalla difficile gestione dei rifugiati siriani. Accolti, peraltro, a braccia aperte in passato in nome di una “fratellanza” islamica per ingraziarsi pure l’ala radicale e fondamentalista dopo aver cavalcato l’onda patriottica.
Lo scorso 6 novembre il Consiglio di Stato turco ha stabilito che l’antica chiesa di San Salvatore di Chora sia riconsegnata “al suo culto iniziale”, cioè ad essere utilizzata come moschea. Il timore dei cristiani ortodossi e dei cattolici è che questa decisione possa fungere da precedente per la storica (e contesa) basilica di Santa Sofia, in passato sede del Patriarcato di Costantinopoli, oggi museo e minacciata di essere trasformata in moschea. Per lisciare il pelo ai radicali islamici, Erdogan il “sultano” ha promesso di trasformarla in luogo di culto musulmano.
Religione e nazionalismo sono le due vie usate dal presidente per controllare il Paese. Una morsa che si è rafforzata grazie alla vittoria - peraltro risicata con il 51,4% dei voti favorevoli - al referendum costituzionale del 2017 che ha archiviato il sistema parlamentare, sostituito dal presidenzialismo. Tuttavia, quando la Turchia sembrava ormai sotto il suo controllo - anche militare, con la repressione che è seguita al fallito golpe del luglio 2016 - sono intervenuti i primi segnali di crisi economia e finanziaria.
Difficoltà rese più evidenti dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di togliere la corsia preferenziale all’importazione dei prodotti turchi. Una ritorsione, quest’ultima, legata alla scelta di Ankara di acquistare il sistema di difesa anti-aereo russo S-400 e che ha determinato una perdita per le imprese turche di circa 700 milioni di dollari, pari al 40% del volume di affari dei beni esentati dai dazi. Da qui la necessità crescente di liquidità, l’incubo inflazione, tassi di interesse fino al 30% e lo spettro del default all’orizzonte, unito alla batosta elettorale a Istanbul e Ankara.
In questo quadro economico e di potere si possono scovare le ragioni che hanno spinto Erdogan a lanciare una offensiva contro i curdi (e i cristiani) nel nord-est della Siria. Nemici da tempo nel mirino, essi sono diventati pretesto ideale per una vasta operazione militare che consente di controllare i territori oltre-confine, rispedire al di là della frontiera due milioni di profughi (musulmani) siriani senza provocare le ire degli estremisti e avocare a sé i progetti di ricostruzione.
Ünal Çeviköz, vice-presidente del Partito popolare repubblicano (Chp), principale forza di opposizione, spiega che dietro la decisione di Erdogan di eliminare le milizie Ypg vi è l’intenzione di rafforzare l’immagine di leader vincente. Uomo di punta del partito in politica estera, egli osserva che subito dopo le sue precedenti offensive in territorio siriano – Euphrates Shield da agosto 2016 a marzo 2017 e Olive Branch nei primi mesi del 2018 – i turchi hanno votato per trasformare il sistema parlamentare in uno presidenziale e per eleggere Parlamento e capo dello Stato.
“Abbiamo uno schema che si ripete: ogni azione militare – spiega – è seguita da un voto. È opinione condivisa che anche la recente operazione Peace Spring preluda a un’altra elezione anticipata nel 2020”. E gli ultimi sondaggi lo confermano: nei mesi scorsi crisi economica e rifugiati avevano fatto precipitare il consenso di Erdogan al 33,7%. A fine ottobre, in seguito all’offensiva curda, il gradimento è schizzato al 48%, il più alto dalle presidenziali del 2018.
Rafforzato in chiave interna, il “sultano” punta all’Europa per ottenere i miliardi andati in fumo con Trump, agitando lo spettro dei profughi per far aprire a Bruxelles i cordoni della borsa.
23/10/2019 08:57