L’improbabile fine della guerra della Russia
Si moltiplicano proposte e ipotesi sulla conclusione del conflitto. ma per Putin le possibili trattative con Trump sarebbero soltanto una fase intermedia di un processo da proseguire. Mentre per gli ucraini la situazione si fa sempre più drammatica non solo per le incertezze degli aiuti occidentali ma anche per la sempre minore partecipazione dei cittadini alle azioni di difesa.
Dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, l’evento che ha concluso per quest’anno la “guerra mondiale elettorale”, una delle varianti della guerra ibrida della politica e della propaganda, ora si moltiplicano le proposte e le ipotesi sulla conclusione della guerra sul campo dell’Ucraina e della Russia. Quanto Vladimir Putin sia disposto ad accettare una soluzione attraverso trattative di pace, o al contrario portando gli scontri a un livello sempre più elevato e distruttivo, è materia di non facile comprensione nel corso degli eventi degli ultimi giorni.
L’uso delle armi americane a lunga gittata da parte degli ucraini ha provocato l’approvazione della “nuova dottrina sulle armi nucleari” da parte di Putin, una dottrina che si può condensare in una sola frase: “faremo fuori tutti gli ucraini e i loro alleati”, rafforzata dalla dimostrazione con un “missile ipersonico” lanciato sulla città di Dnipro, uno dei giocattoli preferiti dello zar, anche se privo della testata nucleare. Si capisce bene quanto queste minacce rimangano nell’ambito della retorica bellica, mentre da inizio novembre Putin non mette più fuori il naso dal suo bunker. Il Cremlino ripete di essere pronto a iniziare le trattative a condizione che gli ucraini lascino i territori occupati nella regione di Kursk, mentre Zelenskyj ripete che proprio l’attacco a Kursk è la garanzia dell’inizio delle trattative, che entrambe le parti intendono condurre da una “posizione di forza”.
In effetti dopo l’attacco a sorpresa in territorio russo, la controffensiva di Putin è stata molto decisa e violenta, con l’aiuto del battaglione Akhmat dei volontari ceceni e l’arrivo di migliaia di soldati dalla Corea del nord. Eppure, nonostante tre impetuose ondate di assalti agli ucraini, i russi non sono ancora riusciti a riconquistare del tutto la regione di Kursk, dove le forze ucraine controllano ancora un’area di circa 600 chilometri quadrati, e mentre prima Putin pretendeva la consegna dell’intero territorio delle regioni occupate in Ucraina di Kherson e Zaporižja, ora ripete che le trattative inizieranno solo con la liberazione di Kursk. D’altra parte, da Mosca si intensificano gli attacchi missilistici anche con gli Shahed iraniani contro le principali città dell’Ucraina, a Kiev, Kharkov e Odessa, quindi la pace sembra ogni giorno meno probabile.
L’offensiva continua a pieno regime anche nel Donbass, con l’esercito russo a un passo dalla conquista dell’ennesimo “punto strategico” di Kurakhovo, che darebbe accesso a una delle città più importante della regione di Donetsk ancora dalla parte ucraina, quella di Pokrovsk. Fino al 2016 questo capoluogo di provincia si chiamava Krasnoarmijsk, in onore dell’Armata Rossa, come i russi vorrebbero che tornasse a essere nominata dopo la “liberazione”. Da qui le armate di Mosca potrebbero cercare di sfondare anche in un’altra regione ucraina, quella di Dnepropetrovsk, rilanciando il progetto di “de-nazificare” e conquistare l’intera Malorossija, con grandi entusiasmi di tutti i propagandisti russi che parlano dell’ormai inevitabile crollo dell’Ucraina, che verrà abbandonata anche dagli alleati occidentali.
La situazione per gli ucraini diventa sempre più drammatica non solo per le incertezze degli aiuti occidentali e l’incognita delle scelte future di Trump, ma anche per la sempre minore partecipazione dei cittadini alle azioni di difesa, con quasi diecimila diserzioni di soldati fuggiti dal campo di battaglia negli ultimi mesi. Il giornalista ucraino Vladimir Bojko parla di 93.500 persone sotto inchiesta per diserzione dall’inizio dell’invasione russa nel 2022. L’industria bellica russa è stata riorganizzata negli ultimi sei mesi, da quando a guidare il ministero della difesa è stato messo l’economista Andrej Belousov, e si calcola che nel prossimo anno Mosca sarà in grado di produrre il 30% in più di munizioni d’artiglieria rispetto a tutti i Paesi della Ue messi insieme, come ha ricordato anche il ministro degli esteri ucraino Andrej Sibiga nel recente incontro a Kiev con Joseph Borrel.
La fine della guerra, nelle intenzioni di Putin, può essere solo la fine dell’Ucraina, e le possibili trattative con Trump sarebbero soltanto una fase intermedia di un processo da proseguire in seguito, anche senza prevedere una conclusione, come “guerra perpetua” verso l’intero Occidente. In questo gioca un fattore molto importante proprio la direzione del settore della difesa da parte del ministro “ortodosso-patriottico” Belousov, che è subentrato all’eterno Sergej Šojgu, al governo dai tempi di Eltsin e oggi segretario del Consiglio di sicurezza, mentre tutti i suoi sodali del ministero da lui retto per un ventennio sono oggi in prigione per corruzione e malversazioni varie.
Belousov in realtà si occupava di questioni militari fin dall’inizio dell’invasione in Ucraina, quando era vice-premier per l’economia e conduceva stress-test per capire come contrastare le inevitabili sanzioni occidentali, cercando di orientare l’economia russa in una direzione bellica globale. Anche prima, fin dal 2013 come documenta il centro Dossier, si occupava di “diverse questioni legate agli armamenti in linea amministrativa”, e assisteva le operazioni della compagnia Wagner di Evgenij Prigožin. Ora il ministro viene accostato a figure storiche come il generalissimo Aleksandr Suvorov, che aprì la strada alla vittoria russa contro Napoleone, o in alternativa al primo ministro degli inizi del Novecento Petr Stolypin, colui che indicò la strada delle “riforme patriottiche” anche a Mussolini e Hitler, e perfino all’eroe americano della resistenza a ogni potere John Rambo, fino a meritarsi la nomea russificata di Rambovič.
Il nuovo ministro ha operato il grande “repulisti” del ministero russo della difesa a partire dall’arresto ad aprile dell’ex-vice ministro, Timur Ivanov, aprendo un’indagine che ha già coinvolto più di una ventina di funzionari di massimo livello. Al loro posto ha nominato figure piuttosto impreviste per il settore della difesa, provenienti per lo più da varie strutture dell’amministrazione statale, e sistemando come segretaria generale del ministero la nipote di Putin, Anna Tsivileva, esponente privilegiata della classe dei grandi oligarchi russi. Tsivileva guida dal 2023 anche la fondazione dei “Difensori della Patria”, creata su indicazione dello zio-zar Putin per sostenere i partecipanti alla operazione militare speciale in Ucraina.
Dallo scorso giugno Belousov ha cominciato a mostrarsi in uniforme militare alle riunioni del Comitato di sicurezza, con somiglianza affettata a quella dei generali, e il Cremlino ha dovuto chiarire che “il grado civile del consigliere statale di prima classe viene equiparato a quello dei generali dell’esercito”. Uno dei paradossi della guerra è che il ministro ha diversi parenti che vivono a Kiev, dove è sepolto un suo zio, il generale dell’esercito ucraino Aleksandr Belousov. Tra i parenti russo-ucraini non c’è comunicazione, se non per le bombe che la Russia continua a gettare sulle case dei parenti del proprio ministro della difesa. Del resto, anche il capo di Stato maggiore dell’esercito ucraino, Aleksandr Syrskij, ha tutta la sua parentela in Russia nella città di Vladimir, che per ora non è stata toccata da bombe ucraine. Pare che il ministero russo della Difesa stia preparando un piano per la suddivisione dei territori dell’Ucraina entro il 2045, con un parte russa, una filo-russa e una “in bilico”.
Ora la Duma di Mosca ha approvato il bilancio preventivo per gli anni 2025-2027, aumentando ulteriormente le spese per la guerra, che già superano il 40% (oltre 120 miliardi di dollari), e soprattutto raddoppiando i fondi destinati ai “Difensori della Patria” della Tsivileva, per coprire tutte le necessità dei soldati al fronte e delle loro famiglie, e anche dei veterani che tornano a casa per diventare le nuove guide del Paese, da istruire per ricoprire ruoli dirigenziali nelle amministrazione regionali e federali. Non importa che i prezzi dei generi alimentari aumentino del 20%, i servizi comunali del 10%, la benzina del 5%; crescono i prelievi fiscali sugli utili, per le piccole e medie aziende, per l’estrazione del gas, del petrolio e del carbone, sugli alcolici, sulle sigarette e le bevande zuccherate.
Un terzo di tutto il bilancio della Russia è sempre affidato all’esportazione di gas e petrolio, vendendo quest’ultimo almeno a 70 dollari al barile, ciò che sarà sempre più difficile per l’aumento della produzione petrolifera degli altri Paesi, che farà scendere il prezzo fino a 40 dollari. La guerra costa sempre di più alla Russia, con un’inflazione galoppante che costringe ad alzare tutti i tassi di interesse e i parametri del costo della vita, e sembrerebbe logico trovare una soluzione per fermare questa folle corsa verso l’autodistruzione dell’economia e della società. La Russia però non è mai in grado di fermarsi, fare una sosta o tornare indietro, negli spazi sconfinati della tajga per raggiungere un confine inesistente: andrà avanti ancora, in un modo o nell’altro, con Trump o senza Trump, per trovare la sua Ucraina, anche a costo di perdere la sua anima.
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