L'eredità di Cirillo e Metodio
La missione dei due fratelli di Tessalonica è davvero una profezia non solo dello sviluppo dei popoli dell’Europa orientale, ma perfino dei loro conflitti. Ben prima del Battesimo di Kiev del 988, delle guerre infinite tra russi e polacchi, fino al conflitto attuale, l’Europa era rimasta incompiuta. E la loro lingua rimasta “scritta sull’acqua” e sul sangue, in attesa di un nuovo miracolo della pace.
Nei giorni scorsi il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) ha commentato la memoria dei santi “uguali agli apostoli” Cirillo e Metodio, detti anche “maestri degli slavi”, che la Chiesa ortodossa festeggia il 24 maggio e che il santo papa polacco, Giovanni Paolo II, ha voluto come patroni cattolici d’Europa. Il patriarca ha ripreso le tematiche su cui ha pronunciato diverse omelie in questo drammatico periodo di guerra, ricordando le comuni radici dei popoli slavi, e in particolare di russi e ucraini e di “tutti gli Stati sui territori dei quali esiste ed agisce la Chiesa ortodossa russa, dove spero si possa rafforzare quella fede comunionale (sobornaja) che i santi Maestri hanno inserito nell’intimo dell’esperienza popolare slava”.
La missione dei due fratelli di Tessalonica è davvero una profezia non solo dello sviluppo dei popoli dell’Europa orientale, ma perfino dei loro conflitti. Furono inviati dall’imperatore bizantino Michele III nell’anno 862, in seguito alla richiesta del principe Rostislav, capo degli slavi della Grande Moravia, che invano aveva prima cercato udienza dal papa Nicola I a Roma, che non aveva creduto alla sincerità di questi barbari che volevano farsi cristiani. Cirillo si chiamava ancora Costantino, era un filosofo e letterato ai vertici della cultura di Costantinopoli, e decise di portare con sé il fratello monaco Metodio, che con lui condivideva le origini macedoni e la conoscenza del dialetto slavo, che essi elevarono alla dignità di lingua ufficiale, perfino liturgica. Egli espose all’imperatore il dubbio che il compito avrebbe potuto essere vano, come “scrivere parole sull’acqua”. Riuscirono invece a inventare un alfabeto, il glagolitico che fu poi sostituito dal cirillico, e compirono il miracolo di farlo approvare sia da Roma sia da Costantinopoli, unendo l’Europa d’Oriente e d’Occidente.
I due fratelli giunsero a Roma poco prima del Natale dell’anno 867, percorrendo l’antica strada romana detta Flaminia, e invece dell’ostile Nicola I trovarono un altro papa, Adriano II, eletto un mese prima del loro arrivo. Egli li accolse solennemente presso la Porta Flaminia, poiché portavano dalla Crimea le spoglie del santo Clemente, quarto papa di Roma scelto dallo stesso san Pietro. Gli slavi divennero annunciatori di un cristianesimo universale, le reliquie del martire riposano ancora oggi nella straordinaria basilica di san Clemente, insieme a quelle dello stesso Costantino, che a Roma si ammalò e prese i voti monastici prima di morire, assumendo il nome di Cirillo, lo stesso assunto in suo onore dall’attuale patriarca di Mosca.
Metodio venne inviato dal papa in Moravia con la dignità di arcivescovo, ma fu bloccato e imprigionato dai vescovi bavaresi, che lo consideravano un usurpatore del loro territorio. Con grande difficoltà riuscì a essere liberato, ma dovette riparare con i suoi discepoli in territori più meridionali, Macedonia e Bulgaria, che rimasero vassalli dei bizantini. Il sogno della grande unità sobornaja degli slavi, evocata da Kirill di Mosca, rimase in sospeso sopra una realtà divisa, gli slavi occidentali cattolici (polacchi, cechi, slovacchi, sloveni e croati) contro gli slavi orientali ortodossi (bulgari, serbi, macedoni, russi), con una serie di territori “di mezzo” a segnarne l’incomunicabilità: i baltici ugro-finnici, i magiari ungheresi, i valacchi e moldavi latini (oggi romeni), e soprattutto poi gli ucraini, popolo di confine che assume in sé elementi di entrambe le parti. Ben prima del Battesimo di Kiev del 988, delle guerre infinite tra russi e polacchi, russi e francesi, russi e tedeschi, fino al conflitto attuale, l’Europa era rimasta incompiuta e divisa, e ancora oggi non riesce a ricomporre l’intero quadro. La lingua di Cirillo e Metodio è rimasta “scritta sull’acqua” e sul sangue, in attesa di un nuovo miracolo della pace e dell’unità tra i popoli “fratelli”.
Il patriarca Kirill ha voluto nell’occasione della festa rivolgere i suoi ringraziamenti ai metropoliti e vescovi ortodossi, russi e di altre nazioni, che gli hanno espresso solidarietà negli ultimi tempi. Egli è infatti ben consapevole che la divisione della guerra è strettamente legata alle divisioni delle Chiese e nelle Chiese ortodosse, che stanno lasciando il patriarcato di Mosca in una condizione sempre più scomoda e isolata. Kirill ha ricordato i patriarchi del passato che hanno “espresso idee personali anche molto interessanti”, finendo però per provocare ulteriori scismi e conflitti, come quello dei vecchio-credenti nel XVII secolo per colpa di un patriarca, Nikon (Minin) che pretendeva di comandare anche sullo zar, e fu infine destituito da un sinodo locale, come molti vorrebbero succedesse allo stesso Kirill.
Quindi Kirill si giustifica dicendo che “il compito principale del patriarca non sta nel generare delle idee e cercare di proporle al popolo dei credenti, ma anzitutto quello di garantire l’unità dell’episcopato, e attraverso di esso l’unità di tutta la Chiesa”. Queste parole suonano come una resa nei confronti dell’ideologia ufficiale, che impone l’azione militare come atto indispensabile per riunire i popoli storici della Russia, senza che si possano contrapporre altre “idee interessanti” e opinioni discordanti. Infatti, insiste il patriarca, “viviamo in un tempo di grande sofferenza, quando le forze esterne cercano di distruggere l’unità della Chiesa ortodossa russa, e strappare la nostra Chiesa in Ucraina dalla pienezza della Chiesa russa… io prego ogni giorno, affinché il Signore dia la forza ai nostri fratelli che sono così sottoposti a dure prove, che possano conservare la fedeltà”.
Il patriarca rovescia tutte le colpe sui “nemici esterni che cercano adepti e sostenitori all’interno della nostra Chiesa”, e vogliono distruggere la vera Ortodossia russa. Ricorda quando “abbiamo resistito insieme alle pressioni più pericolose al tempo dell’ateismo di Stato e abbiamo saputo custodire la purezza della nostra Chiesa da tutte le tentazioni e idee pericolose”, i tempi in cui lui stesso si è formato da giovane vescovo collaboratore del regime sovietico, quando gli ucraini in dissenso da Mosca, soprattutto i greco-cattolici, erano duramente perseguitati. Egli ora afferma di “sentire il peso della croce patriarcale”, con la consapevolezza che si sta giocando una partita decisiva per il futuro dell’Ortodossia.
La Chiesa autocefala ucraina, staccata da Mosca per colpa dei “nemici esterni” condannati da Kirill, il primo dei quali è il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo II, si sono riuniti proprio nel giorno dei santi Cirillo e Metodio in un Sinodo che si è tenuto nella cattedrale di Santa Sofia di Kiev, la chiesa-madre dell’ortodossia russa. Dopo aver sottolineato che diverse centinaia di parrocchie moscovite sono già passate sotto la guida di Kiev, il metropolita Epifanyj (Dumenko) ha rivolto un esplicito appello “ai gerarchi, al clero e ai fedeli della giurisdizione del patriarcato di Mosca in Ucraina” affinché si uniscano nell’unica Chiesa indipendente, e insieme si faccia appello a Costantinopoli, agli altri patriarcati antichi e a tutte le Chiese ortodosse dei vari Paesi per chiedere la destituzione di Kirill. Si deve “portare il patriarca russo a rispondere canonicamente per aver diffuso l’insegnamento eretico dell’etno-filetismo” - il nazionalismo religioso - “sulla base dell’ideologia del Mondo Russo, che ha portato alla benedizione delle armate russe nella guerra in Ucraina e a provocare scismi nell’Ortodossia a ogni latitudine, in particolare dopo la creazione di eparchie russe sul territorio canonico del patriarcato di Alessandria”.
Gli ucraini autocefali citano come esempio da seguire il comportamento della Chiesa di Serbia, che nei giorni scorsi ha riconosciuto da Belgrado l’autocefalia della Chiesa della Macedonia del nord, già benedetta come canonica dal patriarcato ecumenico. In effetti, la riconciliazione e separazione pacifica tra serbi e macedoni ha del miracoloso, e si deve considerare in buona parte un effetto del conflitto ucraino. Per anni i serbi avevano a loro volta minacciato di dover intervenire anche con la forza, cosa che hanno dimostrato di saper fare non meno dei russi già trent’anni fa, lottando per il Kosovo “terra d’origine della Chiesa ortodossa locale”. Quindi hanno cercato di impedire la divisione di una parte della loro Chiesa, formatasi dalla riunione di varie giurisdizioni proprio come in Ucraina, in uno Stato che la Serbia ha cercato a sua volta di non riconoscere e che si è reso indipendente con incertezze e sofferenze non inferiori a quelle di Kiev, la Macedonia del nord di Skopje e Ohrid, antiche città sedi di scuole ortodosse che hanno insegnato il cirillico a tutti gli altri popoli slavi meridionali e orientali.
L’apostolo slavo Metodio e i suoi discepoli si erano infatti rifugiati nei Balcani e nei territori macedoni, da cui erano partiti i due fratelli all’inizio della missione. I primi a tentare di creare dei patriarcati etnici indipendenti furono i bulgari e i serbi, soffocati prima dai bizantini e poi dagli ottomani; i russi pretendono da mille anni di interpretare questa aspirazione degli slavi all’unità libera da ogni altro padrone, finendo per farsi a propria volta padroni di altri slavi che non vogliono sottoporsi ad essi. È in gioco non solo l’Ortodossia e le sue tante giurisdizioni, tra le quali i cattolici cercano di inserirsi con alterne fortune come fratelli e mediatori; è l’intera Europa che deve ritrovare il senso della propria storia, della propria unità, della propria fede.
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