La libertà religiosa post-sovietica ha 20 anni
La legge del 1997 afferma la superiorità dell’Ortodossia; riconosce quattro “religioni tradizionali”: islam, buddismo, ebraismo, cristianesimo protestante e cattolico. Riconosciuti anche i gruppi che dimostravano di essere attive da almeno 15 anni prima della legge. Per la presenza di una moltitudine di sette, si vorrebbe restringere la legge. Di mira i Testimoni di Geova e Scientology. Ma il mondo ortodosso è contrario.
Mosca (AsiaNews) - Sono ormai passati 20 anni dall’approvazione della legge sulla libertà religiosa in Russia, che ha segnato uno spartiacque molto significativo tra il periodo di Boris Eltsyn e quello inaugurato poco dopo da Vladimir Putin, ormai entrato nel pantheon dei governanti più longevi nella storia della Russia. La legge approvata nel 1997 ha segnato di fatto la capitolazione del “corvo bianco”, uomo-simbolo della fuoriuscita dal comunismo e dell’amicizia con l’Occidente, nei confronti della riformulazione dell’eterna aspirazione russa all’isolamento e alla superiorità verso gli altri popoli, passando dall’imperialismo sovietico all’integralismo ortodosso. Su questa legge si è riaperto in Russia un acceso dibattito, dopo la proposta di alcuni deputati di sottoporla a revisione.
La legge “Sulla libertà di coscienza e le organizzazioni religiose” cancellò le precedenti disposizioni del 1990, una sovietica (gorbacioviana) e una della repubblica russa (eltsiniana), che avevano a loro volta messo fine a 75 anni di ateismo militante e di persecuzione dei credenti di ogni fede. Era l’inizio della “rinascita religiosa” russa, che vide in pochi anni la riapertura di chiese, cappelle, moschee e luoghi di preghiera di ogni genere, sulle ali dell’entusiasmo e della “sete spirituale” di una popolazione che da tanto tempo ormai non sopportava più la cappa ideologica del marxismo-leninismo. Nessuna limitazione impediva a missionari e predicatori di ogni Paese di recarsi in Russia a propagandare il proprio credo, e dalla clandestinità riemersero sacerdoti, filosofi, monaci e profeti, molti con l’aureola dei tanti anni di lager sovietico sopportato per la fede.
“Ebbrezza spirituale”
La Chiesa ortodossa russa, guidata dal (molto sovietico) patriarca Aleksij II, assistette impotente al fenomeno, cercando a sua volta di riorganizzarsi e di schivare le accuse di collaborazionismo col passato regime, subendo l’umiliazione di essere considerata una Chiesa ormai superata dalla storia. Dopo i primi anni di “ebbrezza spirituale”, peraltro, accompagnata da forme ben più umane di ebbrezza presidenziale, in Russia cominciarono a formarsi nuovi paradigmi di orgoglio nazionale, morale e religioso. Agli spregiudicati oligarchi, i “nuovi russi” che svendevano all’estero le ricchezze del sottosuolo, si opposero sempre più i cosiddetti siloviki, uomini “della forza” tra cui spiccavano gli eredi dell’unica vera istituzione sovietica sopravvissuta ai cambiamenti, il Kgb, da cui proviene appunto Vladimir Putin. Contro i politici “liberali” e filo-occidentali che si scannavano per occupare ogni genere di poltrona, soprattutto nelle sterminate regioni, si ersero a baluardo nuove forme di nazionalismo, da quella più eccentrica dei ”lib-naz” di Vladimir Žirinovskij ai nuovi comunisti di Gennadij Zjuganov, lo “zio Zju” che quasi soffiò la seggiola allo stesso Eltsyn, salvato solo grazie agli appoggi dei partner occidentali con cui s’indebitò fino a diventarne schiavo. E contro i profeti stranieri e i “settanti” delle nuove religioni si erse l’altra grande istituzione sopravvissuta al crollo del regime, la Chiesa ortodossa. Il Patriarcato ispirò i comunisti a presentare alla Duma un nuovo progetto di legge, a cui Eltsyn timidamente si oppose a marzo, per poi cedere a settembre del 1997.
Pochi mesi dopo, alla fine dell’inverno del 1998, l’incerta economia del nuovo capitalismo russo crollò come un castello di carte, lasciando sul terreno soltanto montagne di debiti e d’illusioni. La breve stagione del liberalismo russo si era esaurita nell’arco di un quinquennio, come era successo anche negli anni prima della rivoluzione del 1917; invece della presa del Palazzo d’Inverno, arrivò la “verticale del potere” di Putin. Gli oligarchi “cattivi” vennero cacciati, esiliati o messi in galera; i governatori regionali furono esautorati e messi sotto il controllo presidenziale; i giornali e le tv smisero di accendere gli animi con inutili dibattiti; le religioni diverse da quella ortodossa furono costrette a sottoporsi alla mannaia delle nuove regole e delle ispezioni.
Nella legge del 1997 si affermava la superiorità dell’Ortodossia su tutte le altre fedi, in quanto Chiesa “istitutrice” dello stesso Stato nella storia della Russia. Un gradino sotto si ammettevano quattro “religioni tradizionali” russe: l’islam, introdotto dai khan tartari nel Medioevo; il buddismo, diffuso tra i popoli siberiani soggiogati a partire dal 1500; l’ebraismo, penetrato in Russia dopo essere stato espulso dagli altri Stati europei, e infine il cristianesimo, non a caso distinto dall’ortodossia nelle forme “eretiche” del protestantesimo e del cattolicesimo, importato da Pietro il Grande in seguito alle conquiste imperiali e alle “finestre sull’Europa” che egli spalancò, a cominciare dalla nuova capitale San Pietroburgo. Tutte le altre confessioni religiose dovevano dimostrare di essere attive sul territorio da almeno 15 anni, per poter ottenere la registrazione statale; essendo passati solo pochi anni dalla fine del comunismo, questa norma (a cui peraltro si opponeva il Patriarcato, che temeva di lasciare troppo spazio alle nuove organizzazioni religiose) era rivolta piuttosto al futuro prossimo, a chi fosse riuscito ad accreditarsi in qualche modo nella nuova Russia.
Testimoni di Geova e Scientology
Le proposte di revisione avanzate nelle scorse settimane, in effetti, si concentrano proprio sulla norma dei 15 anni, o per abolirla o per renderla ancora più rigida, in modo da semplificare ulteriormente il panorama religioso della Russia. Si otterrebbero così strumenti ancora più forti di repressione delle “sètte distruttive”, contro cui proprio nell’ultimo anno si è riaccesa la lotta, mettendo di fatto fuorilegge i Testimoni di Geova e gli adepti di Scientology. I geovisti, che in realtà erano già presenti (e duramente perseguitati) ai tempi sovietici, sono stati accusati di estremismo e di pericolo per la sicurezza statale, mentre i seguaci di Ron Hubbard sono un obiettivo più specifico, come esempio di “nuova setta” da escludere per liberarsi dai perniciosi influssi stranieri. In Russia oggi sono registrate decine di migliaia di organizzazioni religiose, che sono riuscite a infilarsi nelle maglie della legge al di là di quelle “tradizionali”, e quindi gli obiettivi da colpire sono assai numerosi.
La proposta di modifica ha suscitato molte perplessità, rischiando di rompere il “vaso di Pandora” delle religioni, che in qualche modo è stato sigillato in questi 20 anni. Oltre ai rappresentanti delle religioni minoritarie, preoccupati di eventuali nuove limitazioni, a sorpresa si sono dichiarati contrari anche gli esponenti di quelle più “statali” come l’ortodossia e l’islam. Il portavoce patriarcale Vladimir Legojda ha dichiarato che “allo stato attuale non riteniamo una priorità la revisione della legge sulla libertà di coscienza; già nel corso di questi 20 anni sono stati inseriti diversi correttivi”. Anche il presidente dell’Assemblea religiosa dei musulmani russi, il muftì di Mosca Albir Krganov ha affermato alla RIA Novosti che “questa legge è buona; se nascono perplessità per alcune sue espressioni, la questione si può risolvere in via ordinaria in spirito di collaborazione”. Dello stesso parere anche il rabbino capo di Russia, Berl Lazar.
In effetti, la legge del 1997 ha ormai garantito uno status inattaccabile a ortodossi e musulmani, ma anche a molti altri, ognuno nei limiti assegnati. Il timore è che, rimettendo tutto in discussione, si possano creare nuovi squilibri nel panorama spirituale della società russa, che dopo i primi anni di entusiasmo, ha cominciato a riferirsi alla religione come a una questione di convenienza e conformità alle istituzioni. Le spinte al cambiamento, che in parte si possono attribuire alla stessa cerchia presidenziale, sembrano piuttosto obbedire a una logica restrittiva nei confronti della contrapposizione politica e socio-culturale, in preparazione delle elezioni presidenziali del prossimo anno e in nome di una pace sociale da consolidare.
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