L’inutile Consiglio Onu per i diritti umani respinge dibattito su abusi nello Xinjiang
Smentito un rapporto interno che parla di violazioni di diritti umani che potrebbero costituire crimini contro l’umanità. Molte nazioni musulmane hanno respinto la mozione. La Cina ha condotto una efficace campagna di lobbying. Il sistema Onu non risolve problemi: è "bazar diplomatico".
Roma (AsiaNews) – Per due voti ieri il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha respinto una mozione per l’apertura di un dibattito sul trattamento di uiguri e altre minoranze turcofone di credo islamico nello Xinjiang cinese.
Nei fatti l’organismo Onu smentisce un proprio rapporto, pubblicato dopo numerosi rinvii dall’ufficio dell’ex Commissario per i diritti umani Michelle Bachelet il 31 agosto: per l’ex presidente del Cile era l’ultimo giorno in carica. Secondo il documento, sono “credibili” le accuse di esperti, gruppi umanitari e media internazionali alla Cina di compiere crimini contro l’umanità nei confronti delle minoranze musulmane.
Tra gli abusi ricondotti a Pechino vi è quello di aver rinchiuso quasi due milioni di cittadini – soprattutto uiguri – in veri e propri lager, obbligandoli anche al lavoro forzato. I cinesi negano ogni accusa, affermando che quelli nello Xinjiang sono centri di avviamento professionale e progetti per la riduzione della povertà, la lotta al terrorismo e al separatismo.
Promossa dagli Usa e da altri Stati per lo più occidentali, oltre alla Turchia, la mozione puntava all’obiettivo minimo di discutere la vicenda e i contenuti del rapporto, e non – per il momento – all’apertura di una indagine ufficiale.
Hanno votato contro 19 Paesi: Bolivia, Camerun, Cina, Costa d’Avorio, Cuba, Eritrea, Gabon, Indonesia, Kazakistan, Mauritania, Namibia, Nepal, Pakistan, Qatar, Senegal, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Uzbekistan e Venezuela. Solo 17 i favorevoli: Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Honduras, Giappone, Lituania, Lussemburgo, Isole Marshall, Montenegro, Paesi Bassi, Paraguay, Polonia, Corea del Sud, Somalia, Regno Unito e Usa. Gli astenuti sono 11, tra cui India, Brasile, Messico, Argentina e Ucraina.
Colpisce il sostegno alla Cina da parte di diverse nazioni musulmane, timorose di guastare le relazioni politiche e commerciali con Pechino. Una scelta che può anche avere riflessi interni. Chiudendo un occhio su quanto accade nello Xinjiang, questi governi lasciano campo alla propaganda di fondamentalisti e terroristi islamici, che si ergono a paladini degli uiguri, arrivando a minacciare il governo cinese.
La recente chiamata alle armi contro Pechino della branca afghana dello Stato islamico ne è un esempio. L’avranno forse notata i kazaki che da più di 600 giorni protestano davanti al consolato cinese di Almaty per i propri parenti incarcerati nello Xinjiang, inascoltati dal governo Tokaev.
Sdoganata dall’amministrazione Biden per il suo ruolo di mediatrice nella guerra tra russi e ucraini, la Turchia di Erdogan si è invece sentita abbastanza forte da proporre la discussione, sebbene non sia membro del Consiglio per i diritti umani e non abbia partecipato dunque al voto.
I cinesi hanno condotto una efficace campagna di lobbying, “avvertendo” che dibattiti come quello sullo Xinjiang si tramuterebbero in intromissioni occidentali negli affari interni dei Paesi in via di sviluppo.
Una discussione, vera, dovrebbe aprirsi sull’utilità dell’intero sistema Onu, che spreca soldi dei contribuenti dei singoli Stati membri per redigere documenti ufficiali che poi non vengono nemmeno dibattuti. Il Palazzo di vetro non sembra in grado di risolvere problemi: assomiglia più a un bazar dove i principali attori globali tessono ragnatele diplomatiche per rafforzare la propria posizione di potenza. Ucraina, Corea del Nord Iran e Xinjiang, per citare casi di questi giorni, insegnano.
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