L’apatia politica dei russi tra guerre e attentati
Secondo il capo del centro Levada, il principale istituto russo di indagine sociologica, “solo il 10% dei russi si interessa attivamente di politica, e la guerra comporta una super-politicizzazione di una minoranza a fronte della de-politicizzazione delle masse”. Mentre solo il 30% è disposto a concedere fiducia alle persone esterne alla sempre più ristretta cerchia di parenti e amici.
Una delle conseguenze della strage del Krokus City Hall ad opera dei terroristi dell’Isis-Khorasan, oltre al rigurgito di intolleranza verso i migranti dell’Asia centrale presenti in tutta la Russia, è lo sprofondamento ulteriore della popolazione russa nell’apatia e nelle depressione, causata dalla perdita di ogni speranza in un futuro di relazioni normali con il mondo intero per via della guerra, e dall’incertezza della stessa convivenza interna sempre più sottoposta alle repressioni dall’alto, e ora anche agli attentati e ai pericoli nei luoghi di aggregazione. L’11 aprile è stato sventato per un pelo il tentativo di un centrasiatico di far saltare in aria una sinagoga di Mosca.
La reazione dei russi all’invasione iniziata il 24 febbraio 2022 era già segnata dalla presa di distanza dalla politica, come se la questione riguardasse soltanto “i vertici” che evidentemente "avranno le loro ragioni” per decidere azioni così radicali. In quel momento, del resto, lo scetticismo e l’indifferenza verso tutto quanto accade nel mondo e all’interno del Paese erano già fortemente alimentati dal biennio della pandemia di Covid-19, ritenuto in buona parte un “complotto mondiale” deciso da qualche potere oscuro, in America o in Europa, per impadronirsi delle coscienze dei popoli più indifesi, e questo complesso di persecuzione è rimasto molto radicato nell’animo dei russi, come anche di tanti altri popoli.
Oggi la “politica dello struzzo” non si giustifica soltanto con la volontà di preservare il proprio spazio privato, in quanto ormai la guerra penetra profondamente la vita e il mondo dell’informazione, con tutti i condizionamenti della propaganda di Stato da una parte, e della condanna universale dall’altra. Il capo del Levada-centr, il principale istituto di indagine sociologica della Russia, Denis Volkov, spiega sulla rubrica Signal di Meduza che “solo il 10% dei russi si interessa attivamente di politica, e la guerra comporta una super-politicizzazione di una minoranza a fronte della de-politicizzazione delle masse”. La reazione alle questioni drammatiche della società e delle relazioni esterne è la frase russa davaite nie ob etom, “non parliamo di questo”, per preservare sé stessi ed evitare qualunque forma di repressione, soprattutto in seguito alle possibili delazioni di qualunque persona circostante, non potendo più ripetere “non ne so niente” o “non capisco nulla di queste cose”, visto che ormai le tragedie sono sotto gli occhi di tutti.
Del resto, l’indifferenza e il rifiuto sono anche una conseguenza dei conflitti sociali del decennio eltsiniano, che avevano distrutto il senso di “reciproca fiducia” che rimaneva dall’eredità sovietica, almeno nelle generazioni meno giovani. La politica del “mondo liberale” è stata vista come “una cosa sporca”, senza ideologie o principi in cui riconoscersi, strumento di manovre da parte dei potenti e degli oligarchi più spregiudicati. Sempre secondo i sociologi, i russi nell’era post-sovietica sono sempre meno disposti a fidarsi anche degli amici e dei conoscenti, e su questo si è costruita la “verticale del potere” putiniana: ognuno si occupi dei fatti suoi, che alla cosa pubblica ci pensiamo noi per tutti, e del resto del mondo è meglio non fidarsi proprio. La fiducia reciproca aumenta nei momenti di crisi, quando si ha paura di non farcela da soli e ci si sente dipendenti dagli altri, cercando qualcuno che sia credibile; se ci si chiude al mondo e si proclama che tutti i problemi sono risolti “dall’alto”, il bisogno di guardarsi intorno si dissolve sempre più.
Il massimo teorico della “sociologia della quotidianità”, il polacco Piotr Sztompka, spiega che “solo la fiducia può permettere di uscire dalla frustrazione di non farcela di fronte ai problemi sociali”, ma da tutte le indagini risulta che negli ultimi trent’anni solo il 30% dei russi è disposto a concedere fiducia alle persone esterne alla sempre più ristretta cerchia di parenti e amici, e la percentuale era ulteriormente scesa tra il 2018 e il 2020, in seguito alla riforma che ha elevato l’età pensionistica, facendo crollare anche la certezza dell’assistenza materiale da parte dello Stato, per non parlare poi degli anni successivi di pandemia e di guerra. Le pubbliche dichiarazioni di lealtà al capo dello Stato, come quelle del plebiscito elettorale di Putin lo scorso 17 marzo, o quelle rivolte all’esercito e ai servizi di sicurezza, appaiono in realtà una vera cortina fumogena per nascondere la propria volontà di non credere a nessuno, di evitare qualunque tipo di coinvolgimento o di conflitto nella vita di tutti i giorni. Meglio andare di corsa a omaggiare lo zar, soprattutto dopo tragedie come la morte dell’ultimo dissidente Aleksej Naval’nyj, prima che qualcuno se la prenda direttamente con noi.
La verità è che la sfiducia reciproca è ormai la norma della vita sociale russa, ciò che risulta visibile dall’ipocrita consenso all’interno e specularmente dall’impossibile accordo tra i russi all’estero, che non riescono mai a creare un polo compatto di opposizione, come invece hanno dimostrato di saper fare i bielorussi. La solidarietà ideologica dell’era sovietica è stata del resto sostituita dal miraggio del successo personale nell’era degli oligarchi, poi riassunta dall’autocrazia dell’oligarca supremo nel nuovo millennio. Perfino nella Chiesa ortodossa si è imposta la dittatura patriarcale, in una tradizione che dovrebbe essere prevalentemente “conciliare”, ma la sobornost teologica è stata sostituita da quella politico-ideologica rappresentata dalla figura di Vladimir-Kirill Gundjaev, l’alter ego ecclesiastico dello zar Vladimir V. Il recente Nakaz, documento di proclamazione della guerra santa, è stato propagandato come dogma religioso, pur essendo l’ennesimo delirio ideologico che nulla dovrebbe avere a che fare con la Chiesa, anche se è stato presentato dal patriarca nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, all’ombra del Cremlino.
L’apoteosi dell’apatia si dimostra nella finzione entusiastica dei “valori tradizionali morali e religiosi”, che tutti celebrano e nessuno pratica, dalla famiglia “naturale” alla difesa della vita nascente, fino all’educazione dell’infanzia, a cui si pretende di insegnare fin dall’asilo a scagliare droni d’assalto contro il nemico. Il falso collettivismo patriottico si risolve in realtà nell’individualismo più cinico e radicale, ben di più del narcisismo digitale delle società occidentali: in chiesa in Russia non va quasi nessuno, tranne quando si fanno benedire nel cortile le uova e il kulič, il panettoncino pasquale, un gesto apotropaico analogo a quello di recarsi al seggio a votare per Putin. Un altro importante sociologo, Grigorij Judin, definisce la società russa come un “popolo su richiesta”: tutti comunisti poi tutti ortodossi, tutti pacifisti e poi guerrafondai, a seconda di quello che viene imposto dall’alto, tutti omofobi e tradizionalisti laddove il divertimento più diffuso sono i sexy-bar e gli spettacoli notturni di ogni tipo di orientamento, che oggi la polizia chiude dimostrativamente (uno su cento) per esaltare la “conversione patriottica” del popolo.
“Non parliamo di questo”, cioè della guerra e della mobilitazione, che si deve lasciare solo alla černota, la “negritudine” come si usa nel gergo russo chiamare i caucasici, a cui si associano gli asiaty, i popoli minori della Siberia, i criminali e perfino i politici accusati di corruzione e altri reati, che si fanno qualche settimana al fronte in Ucraina per rifarsi una verginità. Dalla guerra sono arrivate le sanzioni, che dovevano far crollare l’economia russa che invece continua a reggere, e se non arriva il vino francese ci beviamo quello georgiano, al posto della Maremma e della Costa Azzurra si va in vacanza ad Antalya o Bali.
Certo, gli indicatori economici dimostrano chiaramente che la Russia sta andando verso un nuovo zastoj, una “stagnazione” economica simile a quella brezneviana; quella che Putin magnifica come “la quinta economia del mondo e la prima in Europa” in realtà non cresce ormai da un decennio, e le prospettive sono tutt’altro che rosee, con la perdita dei mercati occidentali e le spese abnormi per proseguire la guerra a tutte le latitudini. Ci si dovrà accontentare, come quando sotto Brežnev non mancavano mai il salame e la vodka, e non sarà facile per una popolazione ormai abituata al lusso sfrenato, soprattutto a Mosca e a San Pietroburgo, le metropoli che ora vivono nel terrore degli assalitori tagichi. E i tagli alle spese sociali si fanno sempre più sentire, dalle gelate senza riscaldamento dell’inverno che si allontana, alle alluvioni senza argini né protezione in fondo agli Urali, per cui si accusano i malvagi kazachi di non aver svuotato per tempo i pozzi, un’altra buona ragione per organizzare quanto prima una nuova “operazione militare speciale” per riportare all’ordine tutti i vassalli dell’Asia centrale.
Un cantautore italiano scomparso prematuramente, Francesco Puccioni in arte Mike Francis, fece uscire nel 1984 il suo primo album, Let’s Not Talk About It, una musica di genere “disco-funky” che ottenne un certo successo anche in Unione Sovietica, dove tutto il Paese si fermava per guardare le puntate registrate del Festival di Sanremo e si adoravano i cantanti italiani, alcuni dei quali calcano ancora oggi i palcoscenici della Russia putiniana. “Non parliamo di questo”, allora era la voglia di dimenticare i conflitti degli anni di piombo per cominciare a godersi la vita, e in Russia iniziava a diffondersi la voglia di farla finita col sistema totalitario, a cui oggi è tristemente tornata. Il mondo va a rotoli, le guerre si moltiplicano, perfino le acque si riversano come un nuovo diluvio universale; ma di questo, in Russia e in tanti altri posti al mondo, è meglio non parlare.
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