Il ricordo di p. Noe, l’ultimo patriarca della missione del Pime in Myanmar
Una maestra traccia un ricordo del sacerdote, scomparso nel marzo del 2007, a dieci anni dalla morte. Egli ha adempiuto “sino all’ultimo giorno” alla sua vocazione. Ha condiviso in ogni aspetto, anche nel cibo e negli spostamenti, la vita dei propri fedeli. La dedizione al popolo e alla missione emergevano “sin da questi gesti più semplici”.
Yangon (AsiaNews) - Un missionario che ha adempiuto alla sua vocazione sino “all’ultimo giorno”. Che rifiutava l’uso dell’auto per spostarsi in territori impervi, per “non lasciare andare a piedi i miei parrocchiani, mentre io viaggio in macchina”. Un testimone di Cristo, che ha condiviso in ogni aspetto la vita dei fedeli tanto nel cibo, quanto nella lingua e nei costumi. Perché “la sua semplicità, la sua dedizione al popolo e alla missione, si potevano osservare sin da questi gesti più semplici”. È il ricordo tracciato da una cattolica birmana di p. Paolo Noe, sacerdote del Pontificio istituto missioni estere (Pime), di cui ricorre il decimo anniversario della scomparsa.
Protagonista dell’evangelizzazione in Myanmar, egli è considerato “l’ultimo patriarca” del Myanmar. Egli è stato anche l’ultimo missionario rimasto nel Paese dopo che il governo ha chiuso le frontiere ai missionari stranieri nel 1966, espellendo anche tutti coloro che erano arrivati nel Myanmar prima dell’indipendenza. L’impegno di p. Noè e dei missionari del Pime ha generato molte comunità cristiane e una nuova dinamica per lo sviluppo.
Padre Paolo è stato un testimone dell’epopea eroica di tanti missionari della prima evangelizzazione che, nella più totale povertà, hanno affrontato per decenni distanze immense percorse a cavallo o a piedi per incontrare villaggi, catecumeni e cristiani. Dal 1867 il Pime in Myanmar ha fondato 6 diocesi. L’impegno del Pime verso il Myanmar continua con l’aiuto allo sviluppo e con il sostegno nella formazione e nell’aggiornamento dei sacerdoti locali.
Ecco, di seguito, la testimonianza di una maestra che ha vissuto con il missionario nell’ostello e ha lavorato a lungo nella scuola - di cui oggi è preside - raccolta da AsiaNews:
Nel decimo anniversario del suo ritorno alla casa del Padre.
L’epopea dell’ultimo missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere) rimasto in terra birmana, uno dei pochi a non tornare nella propria terra natale con l’inizio della dittatura in Myanmar, inizia nel 1962.
P. Paolo Noe ha adempiuto alla sua vocazione di missionario fra i fedeli sino all’ultimo giorno della propria vita. Io ho avuto occasione di incontrarlo una volta in vita, durante un’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1997 nel villaggio di Le Htun, nella diocesi di Pekhon, che all’epoca rientrava nell’arcidiocesi di Taunggyi.
La sua salute già a quel tempo era precaria. Ciononostante, egli ha percorso un cammino di tre ore a piedi dalle regioni montagnose in cui viveva, nella parrocchia di Hwarikhu, anche se il vescovo di Taunggyi aveva inviato un’auto per prelevarlo. Egli ha opposto un netto rifiuto, sottolineando che “non posso lasciare andare a piedi i miei parrocchiani, mentre io viaggio in macchina”.
Egli si è sempre rifiutato di lasciarsi alle spalle la sua parrocchia e i suoi fedeli, guardando sempre a loro con lo stesso sguardo di un padre. Si rifiutava di mangiare piatti speciali, preparasti apposta per lui, preferendo la tradizionale zuppa d’avena, sottolineando che questo è il “nostro” cibo. La sua semplicità, la sua dedizione al popolo e alla missione, si potevano osservare sin da questi gesti più semplici.
Una volta ha scritto, nella lingua del Myanmar, a una giovane insegnante chiedendole di tornare al villaggio; questa giovane insegnante si era trasferita a Taunggyi per proseguire negli studi universitari. Le sue parole erano così miti e toccanti. Il sacerdote le ha scritto: “Maestra, ci manchi. I bambini si piazzano tutte le mattine sulla porta, in attesa di un tuo ritorno. Senza di te, come possono imparare cose importanti, etc…”.
Sul piano personale, per quanto mi riguarda, vivere in quella realtà è stata una vera e propria sfida, costretti a viaggiare in territori remoti in cui non vi sono strade e manca l’illuminazione. Per questo risulta difficile comprendere a fondo il coraggio e la testimonianza che derivano dalla vita e dalla dedizione manifestate da p. Noe.
Quando mi capitava di viaggiare per quelle zone, in una regione che non è la mia, senza conoscere i luoghi e senza saper parlare la lingua locale, ero in preda alla paura. Per questo chiedevo a p. Noe di pregare per me. Gli dicevo: “Se mi capita qualcosa, non potrò più tornare alla missione e ai tuoi bambini”. Tuttavia, egli mi rispondeva di avere coraggio e di continuare ad aiutarlo attraverso il nostro lavoro.
Negli anni in cui ho lavorato nei territori del sud dello Stato Shan, ho sentito l’eco dei combattimenti in atto fra i soldati del governo birmano e le milizie etniche ribelli. Una volta è avvenuta una sparatoria nel centro di una cittadina che avrei dovuto visitare di lì a un’era. Dovevo recarmi nell’area per la distribuzione di riso e il sostegno a un gruppo di bambini della zona. Le violenze capitavano sempre la notte precedente o il giorno successivo alla mia partenza, risparmiandomi.
In tutti i miei viaggi, non ho mai avuto alcun problema e ho potuto così visitare gruppi di bambini bisognosi nelle diocesi di Pekhon, Loikaw e Taunggyi. Sono sicura che p. Noe mi ha sempre accompagnato e protetto con le sue preghiere. La sua missione continua a vivere in noi, la sua vita continua ad essere esempio e testimonianza.