I rifugiati sull’isola di Manus “hanno già pagato. Ora vanno aiutati”
Il governo australiano accetta di chiudere il campo profughi sull’isola, che ricade nella sovranità della Papua Nuova Guinea, ma non sa cosa fare delle circa mille persone che vi abitano. Il p. Giorgio Licini, missionario Pime per 11 anni nel Paese: “Si tratta di un problema enorme che non ha soluzioni facili. Ma si deve iniziare rimuovendo le cause della migrazione, non respingendo chi soffre”.
Port Moresby (AsiaNews) – Il governo australiano ha convocato “colloqui urgenti” con la controparte della Papua Nuova Guinea per trovare una soluzione alla questione posta dai profughi dell’isola di Manus. La Corte Suprema papuana ha infatti stabilito che è incostituzionale ospitare un centro sul proprio territorio che sia però gestito dall’autorità di Canberra, e ha ordinato la chiusura della struttura. Questa, da tempo definita “un lager”, ospita più di mille persone di cui ora non si conosce la sorte.
Il p. Giorgio Licini è missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), per 11 anni in Papua, e ha passato diversi anni nella zona, seguendo da vicino tutta la questione. Ad AsiaNews spiega: “Soluzioni facili ora non ce ne sono, ma l’Australia dovrà portare questi profughi da qualche parte. Nessuno sa bene cosa fare, ma di certo quelle persone hanno già pagato la loro fuga con dolori senza fine".
La questione non è tanto di razzismo o xenofobia: “Gli australiani conoscono bene la migrazione, il loro è un popolo composto da immigrati. E ogni anno accolgono circa 30mila profughi attraverso i programmi delle Nazioni Unite. Ma sono visceralmente contrari ai viaggi della morte, dalle coste dell’Indonesia a Christmas Island. Sono sempre stati molto indecisi su cosa fare con questi poveri migranti, ma quando hanno deciso di fermare i barconi – dopo diversi naufragi molto tragici, simili a quelli del Mediterraneo – sono divenuti granitici”.
Come il Mediterraneo e il confine fra Stati Uniti e Messico, questa porzione di Pacifico è infatti una rotta privilegiata per chi fugge: qui le vittime sono per la maggior parte provenienti dall’Asia sud-orientale, ma non mancano mediorientali.
Per fermare il flusso, l’Australia ha stretto un accordo con la Papua Nuova Guinea per gestire l’isola di Manus: “E proprio questo accordo ha chiuso a tenaglia coloro che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato: i profughi di Manus hanno pagato per tutti, scoraggiando scafisti e nuovi migranti dal cercare di entrare in Australia. Quelle mille persone sono in un limbo provocato da un lato da una forte presa di posizione, e dall’altro dall’impossibilità della Papua di accogliere”.
Il Paese, continua p. Licini, “non è in grado di dare asilo a nessuno: non c’è lavoro, non c’è assistenza, non c’è sicurezza. È un ambiente non attrezzato per gli stranieri. L’Australia ha invece mezzi e programmi, tra l’altro molto efficaci. La loro società civile semplicemente non vuole gli irregolari. Quelli che arrivano tramite i canali Onu sono molto assistiti: danno loro corsi di lingua, avviamento al lavoro, sostegno economico. Ma temono l’immigrazione non controllata”.
Le Chiese cristiane dell’area, sottolinea il missionario, “hanno tutte un atteggiamento volto all’accoglienza. Ma in Australia non possono fare niente. Hanno molta meno voce in capitolo rispetto all’Europa. Ma la solidarietà di intenti, di preghiera, di aiuti economici, di appello ai governi c’è. Soprattutto per proteggere i minori. L’esecutivo è però inflessibile”.
La soluzione, conclude p. Licini, “può arrivare soltanto affrontando le cause della migrazione. La situazione attuale della Siria è emblematica: ora c’è la guerra e loro devono essere aiutati. Ma al termine del conflitto dovrebbero tendenzialmente pensare a ritornare a casa. Hanno il diritto di crescere, vivere e morire lì: aiutando la ricostruzione del loro Paese. Questa è secondo me la politica da mettere in atto”.